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-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Caso Cucchi, un perito (forse) massone e un maresciallo “felice”

Caso Cucchi, un perito (forse) massone e un maresciallo “felice”

Cucchi, slitta al 24 marzo l’incidente probatorio. La famiglia non si fida del perito: sarebbe o sarebbe stato massone. Il punto sull’inchiesta bis sulla morte di Stefano
di Checchino Antonini da popoffquotidiano.it

Sono state rinviate al 24 marzo prossimo a Bari, le operazioni peritali disposte dal gip di Roma Elvira Tamburelli per accertare la natura e le cause delle lesioni subite da Stefano Cucchi nell’ottobre del 2009 quando fu arrestato per droga. La perizia doveva iniziare ieri nell’ambito della seconda inchiesta bis sulla morte di Cucchi che coinvolge 5 carabinieri. A determinare il rinvio è stato un esposto della famiglia Cucchi nei riguardi del professor Francesco Introna che è a capo del collegio peritale nominato dal gip. Esposto che secondo quanto si è appreso è conseguente alla decisione del professor Vittorio Fineschi, capo dei consulenti della famiglia Cucchi di abbandonare l’incarico peritale per motivi di contrasto e inimicizia con il professor Introna. Introna risulterebbe iscritto alla massoneria – lui dice che lo è stato ma ora non più – oltre ad essere un esponente di Fratelli d’Italia, il partito di Ignazio La Russa, indimenticato ministro del governo Berlusconi che, alla morte di Cucchi, emise un proclama per tenere i carabinieri fuori dalle indagini. Il 24 marzo prossimo dovrebbero essere superati gli ostacoli e avviare le operazioni. Per quanto riguarda l’inchiesta bis, in particolare la posizione dei 5 carabinieri, 3 di questi sono indagati per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità mentre gli altri 2 sono accusati di falsa testimonianza.
Gli inquirenti definiscono «elementi di dirompente novità» le scoperte che hanno portato cinque carabinieri a essere indagati per il pestaggio di Stefano Cucchi e per i successivi depistaggi: una «strategia scientificamente orchestrata per allontanare i sospetti dai carabinieri che lo arrestarono». L’incidente probatorio servirà a stabilire la natura e l’effettiva portata delle lesioni patite da Cucchi. Tre carabinieri lo avrebbero preso a calci e pugni facendolo cadere violentemente a terra fino a spaccargli la schiena all’altezza della quarta vertebra sacrale e della terza vertebra lombare. Furono le conseguenze di quelle botte a ucciderlo? A Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, il quadro probatorio scaturito dall’indagine bis appare «imponente» ma i nomi indicati per la nuova perizia fanno tornare gli spettri della prima inchiesta, così “strabica” da lasciare i carabinieri sempre in un cono d’ombra e capace solo di fornire una perizia così inattendibile da non poter spiegare la morte del trentunenne romano, nel letto di un reparto di medicina penitenziaria, arrestato sei giorni prima. E’ stato il presidente della Società italiana di radiologia medica, a scoprire, poche settimane fa, che le perizie in possesso del tribunale erano inattendibili, basandosi su una risonanza magnetica inutile su un paziente deceduto e sull’esame della porzione sbagliata della colonna vertebrale di Stefano. Da lì scaturì la teoria dell’inanizione, della morte per fame e per sete, che depistò sia la corte sia la commissione d’inchiesta del senato che scambiò un caso di “malapolizia” per un più banale caso di malasanità.
In realtà la miscela velenosa che ha condotto alla morte un detenuto per droga è composta da molti ingredienti tossici. Eccone alcuni: il proibizionismo della Fini-Giovanardi, legge incostituzionale che ha sovraffollato le carceri italiane; la superficialità della burocrazia (quella carceraria perché non è stata nemmeno in grado di pesare e misurare l’altezza di Cucchi, 31 anni per 42 chili, facendolo risultare otto chili più pesante e sei centimetri più alto; quella giudiziaria che nemmeno s’è accorta che, all’udienza preliminare Cucchi risultava albanese, di cinque anni più anziano e senza fissa dimora).
Poi c’è quel settore della politica che fabbrica la paura (del diverso, del terrorista, dello zingaro, del migrante ecc…) e coccola a ogni costo il notevole bacino di voti degli elettori in divisa negando una legge decente contro la tortura o l’istituzione di un codice alfanumerico sulle divise di chi opera travisato in ordine pubblico.
Nelle ore successive alla morte di Cucchi, ad esempio, l’allora ministro della Difesa mise la mano sul fuoco: «Non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione». Il ministro in questione era Ignazio La Russa, Fratelli d’Italia, lo stesso partito di Franco Introna, professore dell’istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari, appena nominato nel collegio che dovrà produrre la nuova perizia. Da qui il rifiuto del perito di fiducia dei Cucchi, il professor Fineschi, le perplessità di Anselmo per i legami di Introna con il team di Caterina Cattaneo, del Labanof di Milano, l’istituto che ha redatto la precedente perizia, e lo sfogo di Ilaria Cucchi: «C’è una legge che impone che tutti i periti e consulenti di parte pubblica nel processo Cucchi debbano per forza aver legami col signor La Russa?».
Un altro ingrediente della miscela è l’emergenza sicurezza, montata dai noti fabbricanti della paura, dentro cui maturano sia un’opinione pubblica spaventata sia una sub-cultura di forze dell’ordine reclutate ormai da quindici anni tra i reduci della guerra globale. E’ un veterano di parecchie missioni di “pace”, Roberto Mandolini, il comandante di stazione dei cinque, un maresciallo, a sua volta indagato per aver preso parte alla minuziosa strategia che, per sei anni, ha impedito di capire cosa fosse successo prima dell’udienza preliminare. E, stando alle carte, avrebbe scritto di suo pugno, in calce ad uno degli ordini di servizio contraffatto quella notte, un commento che ora suona agghiacciante e beffardo: “Bravi!” (pagina 47 della richiesta di incidente probatorio). “I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma (…). Tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in Parlamento”, taglia corto il maresciallo commentando in rete un articolo che ricostruisce i fatti.
«Le uniche chance delle difese sembrano ormai consistere nell’infangare la memoria di Stefano e della sua famiglia, dice ancora a Popoff, Fabio Anselmo, legale dei Cucchi e parte civile in altri casi di “malapolizia”: Aldrovandi, Magherini, Bifloco, Budroni, Ferrulli, Uva ecc… Anselmo teme che, come avviene in tutte le storie come questa, si ribaltino i ruoli. Perché processare qualcuno con la divisa è difficile come processare uno stupratore – lo hanno detto i due pm del processo Diaz in premessa alla loro lunghissima requisitoria – perché scatta sempre il riflesso condizionato di mettere sotto accusa la vittima. La vittima o i suoi familiari.
Roberto Mandolini “è felice”, faceva sapere facebook i primi giorni di gennaio proprio mentre tutti i giornali riferivano la denuncia contro Ilaria Cucchi da parte di un altro dei carabinieri sotto le lenti della procura. Dal suo profilo è evidentissimo l’attacco che teme Anselmo: «Ad oggi ho ricevuto quasi 3000 messaggi in privato di padri e madri di famiglia, di cittadini onesti, di persone che non delinquono nella vita per vivere, genitori attenti all’educazione dei figli (il neretto è mio, ndr)… ». Ecco cosa ha scritto sul caso Bifolco: “Con tutto il rispetto per il dolore di una madre per la perdita del figlio…..ma io a 17 anni, alle 03:00 di notte, non andavo in giro per la città in tre su un motorino rubato, senza assicurazione, senza patentino e in compagnia di un latitante e un pregiudicato. Io stavo a casa a dormire…..!!!! Mia madre diceva: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei…..”. Così anche il primo ottobre del 2014, commentando l’assoluzione dei poliziotti che causarono la morte di Domenico Ferrulli: «Finalmente una Corte che smentisce l’operato di alcuni PM……. Chi è causa dei suoi mali…..pianga se stesso……!!! Alle 20:00 si cena a casa e in famiglia e non si sta a schiamazzare ubriachi sotto le case della gente……». Le vittime, insomma, se la sono cercata.
Come moltissimi tutori dell’ordine anche il maresciallo sembra convinto di servire con onore uno stato, troppo permissivo, che non difende adeguatamente i propri servitori. Per esempio il post del 20 settembre 2014: “Le forze dell’ordine arrestano……e i giudici liberano…..!!!! È sempre stato così in Italia e sempre così sarà”.
Anche le intercettazioni dei suoi uomini forniscono uno spaccato inquietante della visione del mondo che li ispira: «Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (…). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie», dice uno dei tre indagati per il pestaggio, lo stesso che l’ex moglie rimprovera di essersi divertito a pestare Cucchi. Dirà la donna agli inquirenti che quel pestaggio non fu un caso isolato: «Quando raccontava queste cose Raffaele rideva e, davanti ai miei rimproveri, rispondeva “Chill è sulu nu drogatu e’ merda”».
Il comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato recentemente: «Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri». E questo è l’ultimo ingrediente della miscela: la teoria delle “mele marce” dietro cui si barricano i Comandi nei casi di abusi così evidenti da sfuggire agli insabbiamenti (i casi Bifolco, Cucchi, Uva e Magherini, solo per citare). Scrive alla ministra Pinotti un senatore del Pd, Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani: «Se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti».

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