SOPRAVVISUTI

ARNALDO CESTARO
Arnaldo Cestaro è nato ad Agugliaro, in provincia di Vicenza, l’11 maggio del 1939. Fin da giovane aveva aderito al Partito Comunista e, nell’estate del 2001 partì per Genova per partecipare alle manifestazioni di protesta contro il G8. Arrivato nel capoluogo, il 21 luglio partecipò alla manifestazioni della mattinata e, verso sera, decise di trascorrere la notte in città ma, non conoscendola, chiese quindi consiglio ad una signora che lo accompagnò alla scuola Diaz. L’irruzione della polizia nella scuola, avvenne pochi minuti prima della mezzanotte mentre diversi ospiti già si erano addormentati. A dare il via all’irruzione è stato per primo il Reparto mobile di Roma seguito poi da quello di Genova e Milano. Alcuni degli ospiti all’interno della scuola, tra i quali numerosi stranieri, riposavano nei sacchi a pelo, stesi nella palestra della scuola. Mark Covell, un giornalista inglese, fu la prima persona che i poliziotti incontrarono al di fuori dell’edificio e fu sottoposto ad una serie di colpi che lo fecero finire in coma. Durante l’irruzione gli agenti di polizia aggredirono violentemente chi si trovava nella scuola, ferendo 82 persone su un totale di 93 arrestati. Tra gli arrestati 63 furono portati in ospedale e 19 furono portati nella caserma della polizia di Bolzaneto. In base alla ricostruzione data nelle successive indagini e sentenze, per tentare di giustificare le violenze avvenute durante la perquisizione (ed in parte la perquisizione stessa) alcuni dei responsabili delle forze dell’ordine decisero di portare all’interno della scuola Diaz delle bottiglie molotov, trovate in realtà durante gli scontri della giornata e consegnate al generale Valerio Donnini nel pomeriggio, oltre a degli attrezzi da lavoro trovati in un cantiere vicino, prove che avrebbero dimostrato la presenza nella scuola di appartenenti all’ala violenta dei manifestanti. Arnaldo quella notte venne portato in ospedale con dieci costole rotte, un braccio e una gamba rotte, la testa piena di ematomi e il corpo pieno di lividi. Cestaro ha accusato le autorita’ italiane di aver violato l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani che proibisce la tortura e ogni trattamento degradante e umiliante, e l’articolo 13 perché è mancata un’inchiesta efficace per determinare la verità. Il 7 aprile 2015 la Corte di Strasburgo accoglie il ricorso e sancisce che «deve essere qualificato come tortura» quanto compiuto dalle forze dell’ ordine italiane nell’irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001, non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punireil reato di tortura. «Tenuto conto della gravità dei fatti avvenuti alla Diaz la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata. La polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura».

PAOLO SCARONI
I segni della terribile violenza subita da Paolo sono ancora evidenti: invalidità civile, occhi spenti, ecolalia, un grave disturbo del linguaggio che porta a ripetere due o tre volte le parole involontariamente e la gamba destra che non funziona quasi più.
I fatti risalgono al 24 settembre 2005 in occasione del match Verona – Brescia, partita a rischio per la rivalità tra le due tifoserie. Quel giorno però sembra tutto filare liscio anche se la tensione è palpabile.
I veri problemi iniziano nel dopopartita alla stazione ferroviaria di Verona dove, dopo una prima fase di relativa tranquillità, la polizia lancia una carica “a freddo” contro i tifosi del Brescia. Non si è mai capito il motivo di quella carica. La situazione, come provato dalle telecamere e dalle testimonianze, non presentava alcun tipo di criticità. La questura parla di ultras che occupavano i binari, tesi smentita dalle testimonianze dei macchinisti e del personale di un treno. Fatto sta che la carica parte. Per terra rimane Paolo Scaroni stordito prima con lo spray urticante, illegale, poi selvaggiamente picchiato con pugni e manganelli. Finito il pestaggio il ragazzo riesce a scappare sul treno; pochi minuti, il tempo necessario a raccontare l’accaduto agli amici, poi perde i sensi. I soccorsi arrivano in ritardo perché la polizia chiama il 118 segnalando un codice giallo 2, niente di grave. Una volta sul posto gli operatori del 118 attivano il codice rosso 3 ovvero paziente in condizioni critiche. La questura dichiarerà che Scaroni è rimasto ferito da un sasso lanciato dai tifosi.
Paolo rimane in coma per due mesi e al risveglio si rende conto che i suoi ricordi partono dal pestaggio. Dei suoi 34 anni di vita non ha più memoria. Infanzia, adolescenza, lavoro, fidanzata: tutto è svanito. Comincia un calvario fatto di riabilitazioni, visite mediche e lunghe visite dal logopedista. E poi i suoni e i rumori che nel suo cervello danneggiato rimbombano in maniera insostenibile; la gamba claudicante, le cicatrici sul cranio. Per tutto questo gli viene riconosciuta una pensione di invalidità di appena 280 euro.
Nel gennaio 2013 gli otto agenti di polizia del reparto celere di Bologna Luca Iodice, Antonio Tota, Massimo Coppola, Michele Granieri, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Giuseppe Valente e Leonardo Barbierato. imputati per il reato di lesioni gravissime nei confronti di Paolo vengono assolti dal tribunale di Verona per insufficienza di prove. Al processo ci si arriva grazie a una poliziotta, Margherita T., che da sola ricostruisce una versione dei fatti ben diversa da quella fornita dai suoi colleghi dopo che Paolo risvegliatosi dal coma gli racconta come si sono volti i fatti. E’ proprio Margherita che scopre l’esistenza di un filmato di tutti gli scontri in possesso dei suoi colleghi. Sarebbe la prova regina. Peccato che quando arriva ai magistrati, questo filmato è stato tagliato proprio nel punto in cui Paolo è stato pestato. Una decina di minuti. Da qui l’assoluzione: si è riconosciuto la violenza e il pestaggio che Paolo ha subito ma non si è potuto dare un volto a chi ha direttamente compiuto tale atto.

EMMANUEL BONSU
Tardo pomeriggio del 29 settembre 2008 a Parma. Nel parco Falcone e Borsellino Emmanuel venne aggredito da quattro vigili in borghese. Gli agenti erano convinti di aver acciuffato un pusher. Quel giorno i poliziotti della municipale si erano appostati, avevano concordato gesti di intesa e quando sono riusciti a mettere le mani sul sospettato non hanno badato al capello: giù con calci pugni e sberle alla cieca. Immobilizzato con un piede in testa e la pistola puntata. Le botte hanno fracassato ad Emmanuel l’orbita sinistra. Botte durante il trasporto al commissariato e botte anche durante l’interrogatorio, il tutto condito da continui insulti razzisti. Uno degli agenti si fece fotografare con Bonsu sanguinante ed ammaccato per i colpi ricevuti. Nei giorni successivi venne portata al giovane ghanese una busta contenente le notifiche degli atti relative al suo fermo su cui c’era scritto “Emmanuel negro”.
Una testimone che ha assistito alla scena racconterà: “Ho sentito urlare. C’era quel ragazzo per terra con quattro uomini e una donna che lo tenevano fermo. Uno di quel gruppo, racconta la donna, gli ha dato un calcio nel fianco e lui ha urlato. Ho visto che lo portavano via e uno degli uomini è salito sulla sua bici. Il ragazzo ha urlato: ”perché mi portate via la bicicletta?”. A quel punto uno degli agenti gli ha dato un altro pugno nel fianco gridandogli di stare zitto. Gli otto agenti accusati di sequestro di persona, lesioni, insulti razzisti e minacce sono stati tutti condannati con pene che vanno dai sette anni e nove mesi al vigile che si è fatto ritrarre nella foto con Emmanuel dopo il pestaggio, ai due anni (pena sospesa per la condizionale). Delusa la parte civile che rappresentava Bonsu che si è vista sì riconoscere un diritto al risarcimento del danno e una provvisionale di 135 mila euro ma si è vista respingere dal tribunale la richiesta di riconoscere il comune di Parma responsabile civile per quanto accaduto al ragazzo.

LUCIANO ISIDRO DIAZ
La perdita quasi totale di un occhio, l’abbassamento dell’udito, la ridotta mobilità di un braccio, un ematoma che investe quasi tutta la schiena e il torace: sono queste le lesioni riportate da Isidro Luciano Diaz in seguito a un presunto pestaggio nella caserma dei carabinieri di Voghera. I carabinieri affermano che Luciano non si sarebbe fermato al posto di blocco e che dopo aver fatto il gesto dell’ombrello agli agenti si sarebbe dato alla fuga. Una volta fermato sarebbe sceso dall’auto minacciando i carabinieri con un coltello. I due agenti si sono visti obbligati a intervenire con la forza e una volta in caserma parlano del fermato come una persona violenta e ingiuriosa in evidente stato di ubriachezza.
Isidro Diaz è un gaucho, un domatore di cavalli argentino. Il giorno del suo arresto era reduce da una sessione di rodeo sportivo. Luciano è una persona molto amata sia nell’ambito sportivo che in quello personale. Lo dimostra l’altissimo numero di testimonianze a suo favore da parte di amici e conoscenti. Tutti sostengono che Diaz il giorno del rodeo non poteva essere ubriaco, perché sarebbe stato squalificato dai giudici di gara. Nella sua deposizione Luciano dice di aver svolto regolarmente il rodeo ed essere arrivato secondo in due diverse specialità. Una volta finita la gara il suo unico pensiero era quello di tornare a casa dai suoi animali e un po’ per la stanchezza e un po’ perché sovrappensiero non avrebbe visto la paletta dell’agente al posto di blocco. A quel punto parte un inseguimento. Appena la volante lo raggiunge e lo blocca sulla corsia di emergenza Luciano scende con il coltello in mano con la chiara intenzione di consegnarlo agli agenti (ogni gaucho ha un coltello in dotazione, si usa per lavorare con i cavalli, per pulire gli zoccoli o per tagliare le redini che si imbrigliano). Il gesto viene frainteso e scatena la violenta reazione dei carabinieri. Botte sull’autostrada, botte in auto lungo il tragitto e per finire botte in caserma. Il tutto condito di minacce di morte e insulti a sfondo razzista.
In primo grado sono stati assolti i sei carabinieri accusati di lesioni personali.
Il 16 aprile 2015 il carabiniere Marco Iachini viene definitivamente condannato alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione senza la sospensione della condizionale dalla Suprema Corte di Cassazione per il pestaggio ai danni di Luciano Isidro Diaz

TOMMASO E NICOLO’ DE MICHIEL
Venezia, notte del 2 aprile 2009, è da poco passata l’una. Tommaso e Nicolò stanno tornando a casa, sono a poche centinaia di metri dall’abitazione di famiglia, litigano animatamente. In quel momento passa un motoscafo della polizia per un normale controllo, il faro accesso illumina i due fratelli, la volante accosta vicino ad un’altra barca e scendono 4 agenti. Iniziano i controlli, Tommaso non ha documenti, il ragazzo fornisce le sue generalità, il fratello le conferma, precisano anche di essere figli di un loro collega. Il capo pattuglia se ne sta un po’ lontano, è il più tranquillo, gli altri tre agenti circondano invece Tommaso, piccole spinte, sempre più vicini, lo pressano. Volano male parole, reciproche. Trascorre una ventina di minuti e alla fine il ragazzo viene caricato sulla barca per essere portato in questura. Tommaso nel salire sulla barca scivola, barcolla. Gli agenti diranno poi che voleva scappare, prendere il mitra che hanno lasciato incustodito sul mezzo e fuggire con il motoscafo. Quindi viene subito ammanettato e buttato a terra. Qui prende la prima serie di calci e pugni. Una signora vede tutto dalla finestra e spiega nella memoria difensiva raccolta dall’avvocato: “Sembrava un normale controllo, i due ragazzi erano tranquilli, poi uno dei due l’hanno scaraventato sulla barca e gli hanno messo le manette. – Che cosa fate, ho urlato, non ha fatto niente! ho urlato –Non si preoccupi, prego, prego – mi hanno risposto in modo burbero. Poi il motoscafo se né andato a tutta velocità”. In questura Nicolò, il fratello maggiore, quello calmo e ragionevole, viene bloccato, seduto a terra, braccio legato alla sbarra. Tommaso invece, che è molto agitato, braccia ammanettate in avanti, è libero di muoversi. Attorno a lui c’è una decina di agenti. Un uomo in divisa gli sferra un potente calcio ai testicoli, il ragazzo cade a terra e grida:”Maledetti, me la pagherete!”. Un secondo agente allora lo calpesta con gli anfibi e così lo apostrofa: “Taci, zecca comunista , ora hai smesso di rompere i coglioni.” ” Siete dei fascisti” risponde Tommaso. Nicolò vede tutto da una stanza vicina e urla: ” Ma cosa abbiamo fatto? Fateci parlare con qualcuno”
La reazione del ragazzo non è gradita e in tutta risposta anche per lui ci sono calci agli stinchi e viene chiuso dentro alla stanza, perché non possa più vedere nulla. Ma Nicolò sente, urla forti, poi rantoli, poi nulla. Cerca di togliersi le manette e prendere il cellulare. Riesce a chiamare i genitori che in poco tempo arrivano alla questura dato che abitano a poche centinaia di metri. Il padre, poliziotto anche lui, entra mostrando il tesserino. La madre che nel frattempo aveva preventivamente chiamato il 118 lo segue e in un angolo del chiostro della questura, vedono il figlio minore disteso a terra, una decina di poliziotti attorno. Ha il giubbotto e in un primo momento non notano le manette, ma vedono che il volto è una maschera di sangue. “Ma lo avete picchiato voi? Lo volete picchiare ancora?” chiede la madre agli agenti. Come uniche risposte avrà silenzi e sorrisi di scherno. Nel frattempo l’ambulanza di terra non è ancora arrivata e la mamma effettua una seconda chiamata. Passano ancora alcuni minuti e finalmente il 118 parcheggia sotto la questura, gli infermieri scendono, ma non per prendersi cura dei due ragazzi, intrattengono un lungo colloquio con alcuni agenti. La spiegazione ufficiale è questa : “C’è un problema burocratico, non è stata avvisata l’ambulanza di competenza, la titolarità dell’intervento è di Mestre”. Ed è così che infine arriva l’idro-ambulanza. Si va all’ospedale? E’ ancora presto, c’è ancora un delicato ostacolo da risolvere. Dice testuale il capo-pattuglia: ” In casi come questi, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, ingiurie, li avremmo portati direttamente in carcere. Ma visto che sono figli di un nostro collega ci limitiamo ad una sanzione amministrativa”. La notifica che i due fratelli dovrebbero firmare specifica che “sono stati trovati in stato di evidente ubriachezza come risulta dall’alito e dalle frasi sconnesse”. Nicolò non ci sta, lui tra l’altro non aveva nemmeno bevuto, e poi daltronde erano a piedi, in strada, non urlavano, erano quasi sotto casa.
I referti dell’ospedale di Venezia accertano questo:Tommaso De Michiel, 25 anni, una costola rotta e una incrinata, ematoma ai testicoli, trauma facciale, emorragia ad un occhio, labbra tumefatte, lesioni ai polsi provocate da trascinamento. I genitori chiedono espressamente di sottoporre Tommaso ad un esame tossicologico: negativo il test antidroga, tasso alcolemico 1 grammo per litro. Viene dimesso il giorno dopo con 40 giorni totali di prognosi.

FILIPPO NARDUCCI
La storia che raccontiamo è l’esempio più classico dell’esistenza nel nostro paese di un reato di cui si fa un uso troppo spesso arbitrario, che porta a molte condanne e da cui è sempre difficile difendersi: la resistenza a pubblico ufficiale. L’ennesima vicenda che è solo una tra le tante riguarda Filippo Narducci, trentenne di Cesena che il 9 aprile 2010 viene fermato da una pattuglia della polizia nei pressi di un bar. La scena si svolge nella più totale calma, tanto che Narducci tiene per tutto il tempo le mani in tasca, segno che di certo le sue parole e i suoi modi non erano né alterati né minacciosi. Accade invece il contrario: l’agente che accusa Narducci di averlo spintonato è proprio quello che sferra un pugno in pieno volto all’uomo. Gli altri poliziotti si avvicinano e Narducci, nonostante il comportamento aggressivo degli agenti, non prova a scappare ma solo a difendersi fino a che non viene buttato a terra e ammanettato. La differenza con altre vicende simili sta nel fatto che la scena è stata riprese dalle telecamere di sicurezza del distributore di fronte al locale. Questo elemento, pur se tra molte difficoltà, rappresenta un primo passo per tentare una ricostruzione oggettiva della vicenda.
Il 9 giugno 2012 il giudice delle indagini preliminari Rita Chierici accogliendo la richiesta del pubblico ministero Marilù Gattelli, archivia l’esposto presentato da Filippo contro gli agenti Pieri, Tizi e Foschi. In quell’occasione il Gip trasmise gli atti al pubblico ministero affinchè perseguisse penalmente Narducci per calunnia. Filippo aveva già a suo carico un’accusa di resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale originata dalla querela dei tre poliziotti che lo fermarono. Il 27 giugno 2014 Filippo viene assolto da queste accuse e i tre agenti vengono indagati insieme ad un testimone per abuso d’ufficio, falso materiale ed ideologico, falsa testimonianza e lesioni personali. Il giudice Filippo Santangelo deve ora decidere se insistere nella richiesta di archiviazione delle accuse contro i tre poliziotti e il testimone o se chiedere il loro rinvio a giudizio.

STEFANO GUGLIOTTA
L’ 8 maggio 2010 il programma “Chi l’ha visto?” diffonde il video di un gruppo di celerini intento a pestare due ragazzi su un motorino. Siamo a Roma Nord, quartiere Flaminio nel dopo partita di Roma – Inter e la sconfitta dei giallorossi ha scatenato la rabbia dei tifosi che ingaggiano un violento scontro con la polizia. Nei paraggi di via Pinturicchio, una delle vie nei dintorni dello stadio, circola una squadra di celerini a caccia di tifosi in fuga o nascosti. Stefano Gugliotta, 21 anni, transita proprio in quel momento a bordo di uno scooter insieme a un amico. Un poliziotto del reparto mobile, a piedi, gli taglia la strada e lo ferma. Senza alcun preavviso comincia a colpirlo col manganello e a tempestarlo di pugni. L’amico scappa terrorizzato e lascia Gugliotta in balia del celerino. Arrivano altri poliziotti, lo circondano e continuano. Al quinto piano di un condominio, un uomo riprende la scena con il cellulare; le immagini sono confuse e mosse, ma si sentono distintamente le urla dei poliziotti, i colpi di manganello, le implorazioni di Stefano che supplica di smetterla. Altri residenti affacciati protestano vigorosamente, ma i poliziotti non accennano a smetterla. Dopo pochi minuti Stefano si ritrova ammanettato in un furgone della polizia penitenziaria in stato di arresto e condotto in carcere.
Per una settimana i suoi genitori non sapranno nulla di lui, se non che sul figlio pende una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale e che, di questi sette giorni, ne ha trascorsi tre in isolamento.
Dal punto di vista legale su Gugliotta pende l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale: nello specifico, è accusato di aver iniziato lui la colluttazione, circostanza clamorosamente smentita dal video. Ci vorranno diversi giorni prima che la Procura riconosca che Gugliotta è stato vittima di un abuso da parte di un agente di polizia che, come mostrano le immagini, ha deliberatamente colpito il giovane con un pugno in faccia.
9 agenti del reparto celere imputati per lesioni gravi sono stati condannati in primo grado a 4 anni di reclusione con interdizione dai pubblici uffici oltre al pagamento di un risarcimento di 40.000 euro a Stefano. l’ 8 maggio 2015 nell’ambito del processo Gugliotta bis quattro agenti imputati per calunnia e falso vengono condannati a 5 anni di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici e 100mila euro da versare a titolo di risarcimento

FABIANO DI BERARDINO
30 anni, ricoverato al Centro Traumatologico di Torino con ulna e radio spezzati e il naso fratturato. Racconta: “Sono stato massacrato di botte, mi hanno sputato in faccia e persino versato un bicchiere di urina addosso quando già ero steso sulla barella”. Parla di una carica violentissima delle forze dell’ordine, prima di finire in quelle condizioni: “Non siamo stati noi a scatenare l’assalto; noi abbiamo reagito al lancio di lacrimogeni ad altezza uomo”. Parla di violenze mentre aspettava di essere trasportato in elisoccorso al Cto: “A un certo punto ho implorato che la smettessero. Urlavo “basta!” mentre a turno, passandomi accanto, mi colpivano con calci e pugni in faccia”.Di Berardino è il ferito più grave fra i manifestanti No Tav presenti il 3 luglio 2011. “Il medico della polizia teneva lontani gli agenti perché aveva capito la gravità delle mie condizioni e aveva intuito che mi avrebbero ammazzato,se qualcuno non li avesse tenuti a distanza. Ma bastava che il medico si allontanasse anche solo un istante perché qualcuno delle forze dell’ordine venisse verso la mia barella e mi colpisse di nuovo”.

VITTORIO MORNEGHINI
Brutalmente percosso un uomo di 63 anni a Milano. Per questo due poliziotti di 25 anni sono finiti in manette e dovranno rispondere di gravi capi d’accusa: falso ideologico perché hanno dichiarato che il 63enne era caduto a seguito di una spinta e calunnia per aver detto di essere stati aggrediti dall’uomo. I due sono stati incastrati dalle immagini delle telecamere poste nel luogo dove è avvenuto il pestaggio. I due poliziotti hanno provocato alla vittima un “fracasso di faccia”, lo si legge nell’ordinanza firmata dal Gip Alessandra Clemente che ha accolto la richiesta di custodia cautelare del secondo dipartimento della procura di Milano. L’aggressione è avvenuta alle 3 del 20 maggio 2012 in strada e non sono ancora chiari i motivi che hanno spinto i due agenti – in servizio alle volanti di Milano da un anno – ad aggredire con tanta violenza. I poliziotti, che non erano in divisa perché liberi dal servizio, pare avessero fiori che offrivano alle passanti e il fatto di non averli offerti alla compagna dell’aggredito, una donna di 50 anni, potrebbe aver scatenato la lite. Dopo averlo picchiato a mani nude, i poliziotti hanno chiamato il 118 e atteso l’arrivo dei soccorsi. Successivamente hanno dichiarato il falso accusando l’uomo di resistenza a pubblico ufficiale (cosa per cui era stato denunciato) ma le telecamere di vigilanza urbana hanno dimostrato l’infondatezza del racconto.
In primo grado gli agenti Spallino e Sunseri vengono condannati dal Gup rispettivamente a 3 anni e 10 mesi il primo e a 3 anni e 8 mesi il secondo per il pestaggio ai danni di Vittorio Morneghini. La Corte di Appello di Milano in secondo grado sconta ad entrambi gli imputati la pena di 10 mesi portando la condanna per Spallino a 3 anni e per Sunseri a 2 anni e 10 mesi.

WILLIAM NOCERA
Arriva una chiamata da un numero sconosciuto sul cellulare di mamma Rosetta. E’ di suo figlio William che con voce agitata e spaventata dice: “Mamma mamma corri, vieni qui subito, i carabinieri mi stanno arrestando. Ha la pistola, e se parte un colpo?”. Sono le ore 17 del 1 gennaio 2014. William si trova a casa della madre agli arresti domiciliari per una precedente condanna. Come tutti i giorni una pattuglia passa a verificare l’obbligo. Ma questa volta non si limitano a farlo affacciare come sempre,ma uno degli agenti chiede di salire in casa. William avverte il carabiniere che in casa ci sono i suoi due cani e una ragazza.Il militare entra ma alla vista della ragazza si agita ed estrae la pistola di ordinanza intimando a Willy di non muoversi per essere ammanetato. I cani si agitano. L’agente esce dall’appartamento di Willy ed entra in casa del vicino pistola in pugno per affacciarsi alla finestra e chiamare il collega rimasto nella macchina. Willy spavenato si barrica in casa e chiama la madre. Verrà arrestato poco dopo. La madre arriva pochi minuti dopo la chiamata e trova il figlio ammanettato e la ragazza presente in casa visibilmente spaventata e sotto shock. Il ragazzo è in stato di fermo perchè il carabiniere afferma che una volta entrato nell’appartamento avrebbe sentito odore di marijuana e avrebbe trovato un grinder su un comodino. Sarebbe stato inoltre di essere azzannato dal rottweiler di Willy.
Il maresciallo arrivato sul posto ordina a tutti di andare in caserma dove viene ordinata la perquisizione dell’appartamento. Non verrà trovata traccia di marijuana o droga alcuna e il grinder si rivelerà essere un normale posacenere. Il carabiniere si farà refertare per il presunto morso subito ma uscirà dal pronto soccorso con un referto per una semplice abrasione. Willy viene quindi rimandato a casa ma il 3 gennaio viene arrestato e portato in carcere con l’accuse di oltraggio, lesione e aggressione a pubblico ufficiale. Sia il tribunale che lo condannerà a 1anno e 9 mesi per questi capi d’imputazione, sia tutti i tribunali per riesame chiesti dai legali di Willy, non ascolteranno mai la testimone oculare, ovvero la ragazza presente in casa al momento dell’arresto e non verrà mai ascoltato nemmeno il vicino che si è visto piombare in casa il carabiniere con la pistola e ha sentito le urla provenire dall’appartamento sopra. William si trova in carcere e sconterà tutta la pena senza attenuanti.

CHRISTIAN ROSSI
Il 24 marzo 2017, nel tardo pomeriggio, Christian si trova a Salò alla guida dell’auto del padre e, in prossimità di un controllo da parte della polizia locale, non avendo ricevuto alcun segnale di ALT, prosegue la marcia lentamente. In quel momento sente un forte tonfo e si accorge che il vigile ha volontariamente colpito con la paletta, danneggiandolo, lo specchietto retrovisore. Impaurito, anche a causa di una situazione conflittuale con la polizia locale che durava da tempo, si reca velocemente in direzione del bar nel quale lavora il padre. Inseguito a sirene spiegate dalla pattuglia, viene raggiunto e speronato. Quindi gli agenti scendono dalla loro auto e mentre un primo gli punta la pistola addosso caricata con il colpo in canna , il secondo lo colpisce ripetutamente al volto. Viene fatto scendere dall’autovettura, ammanettato faccia a terra e colpito ancora, con pugni e calci. Il pestaggio viene interrotto solo dall’arrivo dei carabinieri, allertati da qualche passante. Accompagnato in ospedale in autoambulanza, gli viene riscontrata un’emorragia sottocongiuntivale all’occhio sinistro, ecchimosi palpebrale inferiore all’occhio sinistro, frattura scomposta delle ossa nasali e frattura della quinta costola destra. Christian ha subito anche un processo a causa di una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale, che lo vede sempre contrapposto alla polizia locale. Il 10 febbraio del 2016, infatti, una pattuglia della Polizia locale di Salò reca a casa sua per consegnargli una notifica di un atto prefettizio di revoca della patente, ma Christian dichiara agli agenti di non sentirsi bene e di non poter ritirare l’atto. I due uomini della Locale lo aspettano sotto casa e, una volta uscito, lo seguono e infine fermano in una piazzola sul ciglio della strada. Secondo i due agenti, Rossi avrebbe aggredito verbalmente uno di loro. Da qui la denuncia ed un processo concluso con la sua assoluzione perché il fatto non sussiste.
A tutt’oggi nessun processo è partito, sebbene due vigili siano indagati per lesioni gravissime personali.

LUCA FANESI
I fatti risalgono al 5 novembre 2017, al termine della partita Vicenza Sambenedettese.
A circa 100 metri dallo stadio Menti, nella zona dove sono parcheggiati i pullman dei tifosi marchigiani, si verificano alcuni tafferugli tra le due opposte tifoserie. Le FO intervengono in ritardo quando la situazione si è già normalizzata da sé senza alcuna conseguenza degna di nota, con inseguimenti e pestaggi punitivi ingiustificati messi in atto contro i tifosi di San Benedetto. Secondo i testimoni, versione poi confermata da un video girato da un residente della zona, Luca sta camminando con le braccia alzate diretto verso i pulmini con cui lui ed altri tifosi sono giunti a Vicenza, quando viene raggiunto alle spalle da alcuni agenti che lo colpiscono violentemente al capo con il manganello. Chi gli è vicino si accorgerà immediatamente della gravità delle sue condizioni. Egli giace con il viso riverso per terra e perde sangue dalle orecchie e dalla bocca.
Protagonista è il famigerato reparto mobile di Padova, già noto in passato per altri episodi simili. Ricordiamo per tutti il caso di Paolo Scaroni.
Nelle ore immediatamente successive ai fatti, l’Ansa riporterà la versione della Questura di Vicenza secondo la quale Luca, nel tentativo di fuggire dagli agenti di polizia, sarebbe inciampato da solo urtando violentemente il capo contro una cancellata. Versione poi smentita quasi subito non solo dalle testimonianze di tifosi presenti durante i fatti e dal video, ma anche dai referti del pronto soccorso e del 118 e dallo stesso Luca giunto in ospedale ancora cosciente. In ospedale gli verranno diagnosticate 4 fratture al cranio, una posteriore e tre laterali, difficili da giustificare con una caduta in avanti e compatibili con gli effetti di contusioni.
Dopo 17 giorni di coma farmacologico, tre operazioni delicatissime e 4 mesi di ricovero, Luca viene finalmente dimesso, ma da lì a breve oltre il danno anche la beffa.
Nonostante alcuni giorni prima le dimissioni egli abbia confermato ad agenti della Digos di non ricordare più nulla dei fatti accaduti a Vicenza, sarà invitato dalla Questura della città veneta a presentare entro due settimane le sue memorie difensive. A maggio, a distanza di circa due mesi, riceverà la notifica di un Daspo, 6 anni con firma.
Luca oggi ha recuperato le funzioni motorie, ma ha ancora delle difficoltà di linguaggio e lo attendono tempi lunghi ed incerti di recupero.
La giustizia in questo caso come in altri simili, viaggia a doppia velocità. In procura è stato aperto un fascicolo contro ignoti per il suo ferimento, ma a distanza di oltre 11 mesi non si ha ancora alcuna notizia di procedimenti in corso.

SAMUELE GIUSEPPE DI MARE
E’ il 13 maggio del 2018. I tifosi del Viareggio partono per San Remo al seguito della loro squadra sprovvisti di biglietti. Essi sono convinti di poterli acquistare direttamente ai botteghini dello stadio, come avviene normalmente per le partite di quarta serie. Nessuno li ha informati che i biglietti del settore ospiti, su disposizione della Questura di Imperia, erano acquistabili solo in prevendita fino alle 1 9.00 del giorno antecedente la gara.
All’uscita del casello di Arma di Taggia trovano ad attenderli il questore, agenti della Digos e agenti di polizia in tenuta antisommossa. “Voi siete sprovvisti dei biglietti, dunque non potrete raggiungere lo stadio. Vi ordiniamo di tornare indietro! ”.
I Tifosi viareggini saranno costretti sotto scorta ad un ritorno a casa forzato senza poter vedere la partita, non prima di essere stati schedati uno ad uno.
Una provocazione inutile, che dato il numero esiguo di tifosi presenti e quello sproporzionatamente alto di forze dell’ordine, avrebbe potuto essere evitata.
Durante il ritorno uno dei pulmini si ferma in un’autogrill per un’avaria al motore segnalata da una spia.
La tensione è alta, soprattutto da parte delle forze dell’ordine. Parte una carica immotivata contro i tifosi viareggini, già intenti a risalire sui pulmini. Alcuni di loro riporteranno traumi e ferite per cui saranno necessari punti di sutura. “Volevano fare male”, racconterà poi uno dei tifosi presenti.
Sarà Samuele ad averne le peggiori conseguenze. Egli ha una disabilità evidente, è senza una gamba ed indossa pantaloni corti che rendono visibile la sua protesi. Ciò non è sufficiente a mitigare la violenza degli agenti di polizia che lo colpiranno ripetutamente alle spalle con il manganello, prima ad un braccio provocandone la caduta, e poi una volta per terra sulla schiena procurandogli gravi lesioni.
All’ospedale di Imperia dove sarà trasportato in autoambulanza, gli saranno riscontrate fratture in due vertebre. Egli sarà costretto a portare il busto per parecchi mesi.

UCCISI

ALDO SCARDELLA (2 LUGLIO 1986)
“Vi chiedo perdono, se mi trovo in questa situazione lo devo solo a me stesso, ho deciso di farla finita. Perdonatemi per i guai che ho causato. Muoio innocente”. Vero, Aldo Scardella è morto innocente, accusato di un omicidio che non aveva commesso. Lo avevano accusato di aver assassinato un commerciante durante una rapina nevrotica e dilettantesca l’antivigilia di Natale: tre colpi di pistola sparati a bruciapelo perché c’éra stata come si dice con burocratico cinismo, resistenza. Aldo abitava a circa centocinquanta metri dal luogo del delitto ed era completamente estraneo alla vicenda. Sequestrato alla sua famiglia, Aldo veniva incarcerato e segregato in una cella di isolamento, dapprima nel carcere di Oristano e poi in quello di Buoncammino di Cagliari, dove gli venne impedito di incontrare anche l’avvocato scelto dalla sua famiglia per difenderlo. Dopo 185 giorni di dura segregazione dove non venne mai neppure interrogato dal giudice istruttore sordo al suo grido di innocenza Aldo,il 2 luglio del 1986, veniva restituito alla famiglia cadavere. E’ stato trovato impiccato nella sezione di isolamento. La corda rudimentale ma efficace era stata ricavata dalla fodera del materasso. Inutili i soccorsi, il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Accanto al corpo il biglietto con su scritto: “Muoio innocente”.

MARIO SCROCCA (1 maggio 1987)
Il 1 maggio 1987 alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluriomicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l’interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un “errore” nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino. Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella antisuicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S.Spirito.
I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all’ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull’autoambulanza di servizio del carcere. Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell’Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere. Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l’enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa.
Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura.
Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell’arresto.
A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane.
L’accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall’arresto su dichiarazioni di una pentita che all’epoca dei fatti aveva 14 anni, dichiarazioni non di scienza diretta, ma di natura di relato proveniente da persona non rintracciabile e soprattutto al disconoscimento fotografico di Mario da parte della stessa pentita. Passando per le irregolarità nella carcerazione, nella morte del giovane e nei referti autoptici.
Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia “stato suicidato” o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva.
La responsabilità “reale” di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere uno dei fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche.

STEFANO CONSIGLIO (12 APRILE 1989)
Il 12 aprile 1989 all’età di sedici anni, Consiglio fu ucciso da un colpo di Beretta 92F, esploso da un agente di polizia che lo aveva inseguito per le vie di Brancaccio (quartiere di Palermo), dopo averlo visto rubare un’autoradio. Il poliziotto fu arrestato per l’assassinio di un minorenne. Stefano Consiglio, colpito con un colpo a bruciapelo alla testa, morirà tre giorni dopo in ospedale.

CARLO GIULIANI (20 LUGLIO 2001)
Nell’ambito delle manifestazioni organizzate dal Genoa Social Forum contro il vertice dei G8 il corteo dei disobbedienti proveniente dallo stadio Carlini viene più volte caricato dai Carabinieri e polizia mentre si trova in via Tolemaide, in un percorso autorizzato ad oltre trecento metri dal limite convenuto.
Durante le cariche, giudicate da moltissimi testimoni di una violenza inaudita quanto ingiustificata oltre ai gas lacrimogeni e ai getti d’acqua urticante vengono sparati anche numerosi colpi di arma da fuoco.
E’ difficile fuggire, con un corteo di diecimila persone che preme alle spalle: chi cade viene colpito da tre, quattro, anche cinque agenti per volta. I manifestanti iniziano forme di resistenza tentando di creare barricate. Un gruppo, vedendosi aggredito anche dalle vie laterali, cerca di creare al corteo una via di uscita seguendo un plotone di carabinieri che si ritira, protetto da due camionette, verso piazza Alimonda. Una delle camionette si ferma, inspiegabilmente, contro un cassonetto, dal finestrino posteriore spunta una pistola. La maggior parte dei manifestanti fugge; la pistola in un primo momento prende di mira un giovane che si china e scappa, quindi si rivolge verso Carlo che, sopraggiunto, ha raccolto un estintore vuoto ai suoi piedi.
Quando Carlo alza le braccia la pistola spara due volte: il primo colpo lo raggiunge in pieno viso; dopo il secondo colpo la camionetta è in retromarcia e passa – nonostante le urla di avvertimento dei presenti – con la ruota posteriore sinistra sul suo corpo che è rotolato in avanti; quindi, ripassando sul corpo, la camionetta si allontana per via Caffa, al di là delle forze di polizia schierate che hanno assistito al fatto senza intervenire.

CARMELO CALOGERO (10 MAGGIO 2001)
La notte del 10 maggio 2001, intorno alle 2 del mattino in via Farini a Milano, Carmelo Calogero venne arrestato durante un’operazione antidroga che vide il coinvolgimento di varie persone.
Già subito dopo l’arresto, stando alle dichiarazioni degli agenti intervenuti, Carmelo manifestò uno stato di grave malessere fisico, sudando vistosamente, con forte nausea e conati di vomito.
Sempre secondo il racconto degli agenti, Carmelo dava corso a gesti di autolesionismo, sbattendo la testa contro il muro, e, mentre veniva scortato fuori dall’edificio, si rendeva necessario il supporto fisico degli agenti perché l’arrestato non collaborava e continuava a cadere come un “peso morto”.
Nonostante questo, gli operanti della volante Sempione lo accompagnarono direttamente in questura, senza consultare alcun sanitario.
Presso la camera dei fermati della questura di Milano, Carmelo sembrò a quel punto apparentemente tranquillo e in stato di sonno fino alle 5.50 del mattino circa, quando, dopo aver chiesto di poter andare al bagno, venne liberato dalle manette e, accompagnato ai servizi dall’agente addetto alla camera fermati, ebbe un malore: la guardia incaricata di condurlo in bagno dichiarò di averlo visto vomitare, per poi cadere con il viso in avanti nella toilette alla turca.
Il successivo intervento del personale della Croce Rossa non consentì la rianimazione di Carmelo, che giunse già morto presso il pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano.
Dalla prima relazione del medico legale incaricato dalla procura della repubblica, emersero segni di percosse ai danni di Carmelo, rilevate anche dal medico legale della famiglia. Una seconda relazione del medico legale d’ufficio, basata sugli esami tossicologici, concluse che la morte di Carmelo fu provocata da un’intossicazione acuta di cocaina, assunta presumibilmente a scopo di occultamento (alquanto singolare se si considera che nel corso dell’operazione era già stato sequestrato un quantitativo considerevole di stupefacente) in due momenti, uno immediatamente precedente l’arresto ed uno in prossimità della morte, quando Carmelo era già in stato di arresto.
Il sospetto fu che la dose letale venne conservata addosso da Carmelo; gli agenti infatti non la trovarono in fase di perquisizione (tra l’altro non risulta essere stata eseguita alcuna ispezione personale a carico di Carmelo). Altra ipotesi fu che la droga venne ceduta a Carmelo proprio nei locali della questura da uno degli altri fermati.
Le indagini del sostituto procuratore di Milano si chiusero con un invio degli atti in archivio, non essendo stata ritenuta fondata alcuna ipotesi di morte in conseguenza di lesioni ed essendo stata, al contrario, riscontrata la morte per intossicazione di Carmelo.
La famiglia allora si rivolse al giudice civile.
Nel 2003 ebbe inizio il processo ed il Tribunale di Milano in primo grado ritenne effettivamente il ministero dell’Interno responsabile della morte di Carmelo per omesso soccorso e omessa custodia, riconoscendo 100mila euro di danni alla madre e 125mila alla figlia.
Il Viminale, come era prevedibile, fece appello e vinse, così come vinse in Corte di Cassazione: la “colpevolezza dello Stato” venne smentita poiché dalle prove raccolte non emersero elementi che evidenziarono un collegamento tra l’arresto e la custodia in questura e la morte dell’uomo.
Dopo la definitiva richiesta negata di responsabilità statale e conseguente risarcimento, la famiglia di Carmelo fece ricorso a Strasburgo a fine 2011.
Quest’anno, dopo 12 anni, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha stabilito in via definitiva che “il governo non ha dimostrato in modo convincente di aver offerto alla vittima una protezione sufficiente e ragionevole della sua vita pur essendo a conoscenza delle sue condizioni e dei potenziali rischi correlati”.
Sostanzialmente la CEDU ha ritenuto che lo Stato non abbia preso tutte le precauzioni necessarie al fine di ridurre il rischio che Carmelo morisse a causa dell’overdose, condannando lo Stato italiano per violazione del diritto alla vita, sancito dall’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
La Corte ha anche obbligato l’Italia al risarcimento di 30mila euro per danni morali alla famiglia di Carmelo per responsabilità della morte di Carmelo mentre era in custodia nelle mani dello Stato.
Ora, in virtù della recente riforma Cartabia, la famiglia ha richiesto l’annullamento delle sentenze della Cassazione e della Corte di Appello di Milano, in quanto contrastanti con la pronuncia della Corte Europea dei Diritti Umani.
La Corte di Cassazione non ha ancora fissato l’udienza.
Si torna dunque a chiedere, dopo 22 anni, una definitiva pronuncia sul caso da parte dell’autorità giudiziaria italiana, che possa appagare il desiderio di giustizia della famiglia, alla quale non potrà essere restituita la vita di Carmelo, ma che chiede una parola chiara e definitiva della giustizia italiana sulla vicenda.
Diverse domande tormentano la famiglia di Carmelo: come è morto davvero Carmelo Calogero? E’ possibile morire mentre si è in custodia nelle mani dello stato?
La speranza della famiglia è che qualcuno, a distanza di tanti anni, possa dare un contributo a rispondere a queste domande e collaborare con l’autorità giudiziaria per fare piena luce sulla morte del congiunto.

CARMINE SPINA (26 GIUGNO 2005)
«Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria curano che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell’intervento del pubblico ministero». Recita così l’articolo 354 del Codice di Procedura Penale e dovrebbe venire applicato quando i luoghi del reato sono quelli di un incidente stradale. A maggior ragione se c’è un ragazzo morto che giace sull’asfalto. È Carmine Spina, 24 anni, l’anno è il 2005 e il suo corpo è privo di vita a seguito dell’impatto tra la sua moto e un’automobile. Viaggiava su una strada con diritto di precedenza, mentre l’automobile con cui si è scontrato usciva da una strada secondaria con obbligo di stop e sulla strada percorsa da Carmine c’è la striscia continua, segnale che lì non è possibile né fare sorpassi, né immettersi da strade secondarie; solo in un punto il tratto è discontinuo ma probabilmente non è il punto in cui l’automobile attraversa per immettersi sulla strada di Carmine (anche alcune foto dei Carabinieri e una perizia successiva lo dimostreranno). Non è stato possibile accertarlo perché il suddetto articolo 354 in questo caso non è stato rispettato e l’automobilista è stato assolto. Questa è anche la storia di Gerardo, padre di Carmine, e di un’aula di tribunale. È il 2008 e Gerardo ascolta in quest’aula alcune testimonianze che non dimenticherà più. A parlare è il Sottoufficiale responsabile dei rilievi, Genovino Moschella, che risponde così alla domanda che gli viene rivolta sulla posizione in cui si trovavano la macchina e la moto: «Allora, la macchina è stata spostata dopo che è stato consentito il transito di altri veicoli, perché al momento non ci si era resi conto della gravità dei fatti». Il verbale redatto nel giorno dell’incidente, però, racconta ben altro. Secondo quanto scritto dagli stessi carabinieri, infatti, giunsero sul luogo dell’incidente quando già «vi erano due ambulanze del 118 con il relativo personale sanitario. Disteso al suolo vi era un giovane dall’apparente età di 25 anni e personale medico che prestava le cure anche ad un altro giovane motociclista. Il giovane che giaceva al suolo, ormai privo di vita, veniva identificato in Spina Carmine Aniello». Dunque un’evidente contraddizione che verrà spiegata come semplice dimenticanza. È un fatto, però che i rilievi siano stati effettuati dopo aver spostato l’automobile, cosa che contravviene al Codice di Procedura Penale. Inoltre si testimonierà che la visibilità di Carmine, che aveva appena percorso una curva, era di soli otto metri. In realtà la visibilità su quella strada è di ben ottanta metri. Gerardo non ci sta e da allora ha iniziato una battaglia per capire come sono realmente andate le cose. Ha sporto denuncia per cercare di fare chiarezza ancora una volta in tribunale, ma il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione. Gerardo Spina si è opposto all’archiviazione ma il Gip non ha ancora deciso: «Nella richiesta di archiviazione si scrive che il Sottufficiale nel dire in tribunale, sotto testimonianza, “8 metri se non sbaglio” ha usato un termine dubitativo, estrapolando una sola frase dal contesto. Il fatto è che non lo ha detto una sola volta, ma lo ha ribadito e sottolineato in una fase successiva della testimonianza. Io da padre, non posso permettere che queste falsità e omissioni vengano prese per buone da persone che dovrebbero applicare la legge in egual modo per tutti i cittadini. Sapevano bene l’Ufficiale di P.G. e gli altri tre che mio figlio era deceduto e sapevano bene la distanza che va dalla curva al punto di impatto».

FEDERICO ALDROVANDI (25 SETTEMBRE 2005)
25 settembre 2005, viale Ippodromo a Ferrara. Federico di ritorno da una serata con gli amici decide di fare l’ultimo pezzo che lo separa da casa a piedi, sulla sua strada si imbatte nella volante alfa 3 con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri. I difensori dei poliziotti sostengono che la volante fosse arrivata sul posto in seguito alla segnalazione da parte di una cittadina preoccupata dal frastuono proveniente dal parchetto di viale Ippodromo. Il legale della famiglia Aldrovandi ha ragione invece di sostenere che quelle urla e quei rumori fossero il prodotto della colluttazione in corso tra Federico e i due agenti. Pontani e Pollastri descrivono il giovane come un invasato, spuntato d’improvviso dalla boscaglia e che li avrebbe aggrediti senza motivo a colpi di karate. Dopo poco tempo arriva la volante alfa 2 con a bordo Monica Segatto e Paolo Forlani. Lo scontro diventa violentissimo e alla fine i poliziotti hanno la meglio sul ragazzo, che muore. Muore sull’asfalto schiacciato dalla forza dei 4 agenti per quella che in termini medici si chiama “asfissia da posizione” per una forte compressione al torace. La tecnica di contenimento e ammanettamento prevede tempi più rapidi ma in quel caso si è andati ben oltre, si è sfociati nell’abuso e il momento della compressione sul selciato è stato l’ultimo atto di una lunga serie di violenze: calci, pugni, manganellate sferrate con una forza tale da spezzarne due. Pontani nel colloquio con il centralinista del 113 dirà testualmente: ”abbiamo avuto una lotta di mezz’ora con questo” e poi affermerà: “ cioè, l’abbiamo bastonato di brutto”. Federico rimane a terra, privo di vita, sfigurato in volto, col cranio sanguinante, 54 lesioni verranno rilevate dalla perizia medico legale di parte civile. Alla fine del primo grado di processo verrà illustrato dal giudice monocratico che i depistaggi, le omissioni e le testimonianze in “copia carbone” dei quattro agenti non hanno consentito un capo di imputazione più pesante di quel controverso “eccesso colposo in omicidio colposo”. Non è stato possibile parlare di omicidio preterintenzionale perché le indagini di polizia giudiziaria immediatamente successive al’evento sono state condotte in modo da rendere ostica la formulazione di tale capo d’accusa. A operare i primi rilevamenti, a cercare testimoni e a redigere verbali c’erano i colleghi di quei quattro poliziotti che verranno condannati in via definitiva a 3 anni e 6 mesi di reclusione (pena ridotta a 6 mesi grazie all’indulto). Dopo solo un mese di reclusione a Rovigo per Monica Segatto si apriranno le porte del carcere e beneficiando del decreto svuota carceri finirà di scontare la pena ai domiciliari. Anche Enzo Pontani dopo un mese a Milano otterrà i domiciliari. A luglio 2013 tre dei quattro poliziotti sono tornati in libertà. Pontani verrà scarcerato un mese dopo avendo iniziato la carcerazione più tardi per un cavillo tecnico. Per loro si prospetta la sospensione di sei mesi dal lavoro al termine dei quali potranno tornare ad indossare la divisa come se nulla fosse successo nonostante le sentenze dei vari tribunali, dal I° all’ultimo grado di giudizio fino al tribunale di sorveglianza parlano di una “violenza ingiustificata prima” e “dissimulazione del vero poi” che gettò “discredito per il Corpo di Polizia cui ancora essi appartengono”, su un ragazzo che quella mattina non stava commettendo alcun reato e ne uscì ucciso da quattro individui che in cassazione, dal procuratore generale furono definite durante la sua arringa “quattro schegge impazzite”.

RICCARDO RASMAN (27 OTTOBRE 2006)
Riccardo è un ragazzone di quasi due metri, classe ’72; è il figlio più piccolo di una famiglia contadina di etnia mista italo – istriana. Nel 1990 parte per il servizio militare nell’aviazione, senza sapere che da li a poco la sua vita sarebbe cambiata radicalmente. I primi mesi scorrono lisci e Riccardo resiste allo stress emotivo della vita da camerata finché non incappa in quei terribili commilitoni che prendono il nome di “nonni” che lo bersagliano e lo umiliano arrivando in alcuni casi anche a picchiarlo. Riccardo entra in depressione finché non arriva il congedo per incompatibilità ambientale. Torna a casa stravolto e la diagnosi è impietosa: sindrome da schizofrenia paranoide. Riccardo sviluppa così un terrore verso la divisa e nel 1999 abbiamo il primo episodio di violenza poliziesca, preludio a quello del 2006, al quale viene sottoposto Rasman: un vicino chiama la polizia segnalando che Rasman ascoltava la musica a volume alto in macchina sotto le sue finestre. Dopo tre giorni si presentarono due poliziotti a casa di Rasman. La porta venne aperta dal padre al quale fu chiesto se il figlio fosse in casa. I due agenti chiesero la carta di identità ma subito dopo afferrarono Rasman per i polsi e con la forza cercarono di portarlo fuori. Rasman fece resistenza e i due agenti entrarono in salotto, colpendolo al volto. A quel punto il ragazzo prese una sedia per allontanarli mentre il padre impietrito gridava ai poliziotti di fermarsi. Con l’aiuto della sedia riuscì a spingere fuori i due agenti e chiuse la porta. Rasman nella colluttazione riportò come riportato dal certificato del pronto soccorso un trauma cranico e facciale. A ottobre 2006 un conoscente trova a Riccardo un posto da netturbino. Una notizia che per Rasman, emarginato dal paese per i suoi problemi, va festeggiata. Il 27 ottobre dopo aver trascorso il pomeriggio con i genitori torna nel suo monolocale per passare qualche ora prima di uscire con i suoi amici. In quel lasso di tempo l’unica cosa che riesce a fare è dare da mangiare al cane dato che viene ritrovata una scatoletta vuota all’interno dell’ abitazione. Sente scoppiare dei petardi fuori dalla sua finestra e forse spaventato esce sul terrazzino per vedere cosa stesse succedendo. I vicini lo vedono sul terrazzo ricollegando lo scoppio di quei petardi a Rasman e chiamano la polizia che intima al ragazzo di aprire la porta ma il Rasman anche per la mente sovraccarica dall’euforia risponde “se entrate vi ammazzo”. I due agenti intervenuti chiedono allora l’intervento di un’altra volante e dei vigili del fuoco. Al loro arrivo i vigili del fuoco sfondano la porta e i poliziotti fanno irruzione nell’appartamento di Riccardo, che reagisce violentemente e innesca così una furiosa colluttazione. Ci vuole poco a bloccarlo. Lo ammanettano, lo comprimono sul pavimento, lo colpiscono con calci e pugni, con i manganelli, forse con lo stesso piede di porco usato per sfondare la porta e il manico di un’ascia. Gli viene rotta una sedia sulla schiena, che sparirà inspiegabilmente dalla stanza, che lascia su Riccardo vistosi segni ematici riscontrati poi da tre diversi medici Con l’ausilio dei vigili del fuoco lo imbavagliano e gli legano le caviglie con il fil di ferro. Riccardo troverà la morte per asfissia da posizione. Dei quattro poliziotti che hanno concorso colposamente alla morte di Riccardo solo tre verranno condannati in primo grado per omicidio colposo con una condanna che ammonta a 6 mesi con la condizionale e 60.000,00 euro di provvisionale, sentenza confermata poi appello. Successivamente anche la Corte di Cassazione ha confermato le sentenze precedenti rendendo definitiva la condanna per omicidio colposo nei confronti dei tre agenti.

RICCARDO BOCCALETTO (24 LUGLIO 2007) 38 anni, muore il 24 luglio 2007 nel carcere di Velletri. Era detenuto in attesa di giudizio per reati legati alla droga. Dopo il suo ingresso in carcere ha cominciato ad accusare inappetenza, vomito, astenia e progressivo peggioramento anoressico, arrivando a perdere oltre 30 chili di peso in pochi mesi. Nonostante le sue scadenti e precarie condizioni di salute, nei suoi confronti non sono state approntati tutti quegli interventi specialistici che il grave e disperato quadro clinico avrebbe richiesto. Dalle indagini espletate dai familiari del signor Boccaletto Riccardo è emerso che la causa del decesso del detenuto sia stata “la diretta conseguenza di un’acuta insufficienza cardiocircolatoria da verosimile aritmia cardiaca in un soggetto con sindrome del QT lungo”; sindrome che però non è stata segnalata nel corso della visita cardiologia effettuata in carcere il 18 aprile 2007, con la conseguenza che il detenuto non è stato successivamente sottoposto a tutti quegli opportuni interventi specialistici che il suo precario stato di salute richiedeva.

ALDO BIANZINO (14 OTTOBRE 2007)
Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni residente a Pietralunga, paese che dista una ventina di chilometri da Città di Castello in provincia di Perugia. Aveva scelto una vita appartata insieme alla compagna Roberta Radici e a suo figlio Rudra: un appezzamento di terra nel cuore delle colline umbre, una cascina, uno stile di vita alternativo all’insegna del pacifismo e delle filosofie orientali. Questo fa di Aldo il perfetto “attenzionato”, un elemento che non può passare inosservato in una piccola comunità collinare, ma che era e rimane una persona ben vista da tutti. Un hippie con la barba lunga, una decina di piante di marijuana coltivate nell’orto di casa e con un modesto lavoro di falegname, facilmente può essere etichettato come diverso. Per quelle piantine di canapa, la notte del 12 ottobre Aldo e Roberta vengono arrestati con l’accusa di possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Suo figlio Rudra, di appena quattordici anni e la nonna di novanta vengono lasciati completamente soli e lontani da tutto per due giorni. Vengono condotti al carcere di Capanne e separati in diversi reparti. Dall’ingresso in carcere Roberta non vedrà più Aldo se non dopo la sua morte. La mattina seguente alle ore 8.15 Aldo viene trovato morto nella sua cella. Ad annunciarlo alla moglie ancora detenuta nella sezione femminile , è un dipendente del carcere che ambiguamente esordisce con questa domanda: ”Signora che lei sappia suo marito soffriva di svenimenti?”. Sarà Roberta a descrivere il tono incalzante di quel surreale dialogo, che avveniva mentre Aldo era già steso sul tavolo dell’obitorio. “Signora suo marito soffre di cuore? Ha mai avuto problemi al cuore? E’ mai svenuto?”, queste le domande che il dipendente dell’amministrazione penitenziaria rivolge alla compagna di Aldo. Roberta viene scarcerata verso mezzogiorno. Nei corridoi incontra quel funzionario accompagnato da un’altra persona e si precipita a chiedere quando avrebbe potuto vedere Aldo. L’uomo testualmente le risponde: “Signora, martedì dopo l’autopsia”. Roberta muore un anno dopo di tumore, dopo aver dedicato gli ultimi mesi della sua vita alla ricerca della verità, convinta fin da subito che Aldo abbia subito violenze. Sarà il medico legale nominato da Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, il primo a parlare chiaramente di pestaggio “particolare”, effettuato con tecniche militari atte a non lasciare segni esterni ma a distruggere gli organi interni. Il fegato di Aldo presentava una profonda lacerazione. A curare le indagini è lo stesso Pm che ha ordinato l’arresto di Aldo che al primo incontro con la signora Toniolo esordì dicendo:”Signora lei non si deve preoccupare, svolgeremo indagini a 360 gradi, ma non è detto che troveremo il colpevole” cosa al quanto inquietante visto che il carcere è una struttura circoscritta sotto il pieno controllo delle istituzioni. Per ben tre volte il Pm Giuseppe Pietrazzini chiederà di archiviare il procedimento a carico di ignoti e ci riuscirà concludendo che Bianzino è morto per cause naturali in seguito alla rottura di un aneurisma cerebrale. Una prima fase delle indagini tecniche, basata sulle consulenze del Pm, evidenziava una causa di morte violenta. Ulteriori approfondimenti sulle videoriprese del carcere e su altri dati ricondurranno nuovamente il decesso a cause naturali determinando la definitiva archiviazione.

GABRIELE SANDRI (11 NOVEMBRE 2007)
Gabriele Sandri era in viaggio con i suoi amici, direzione Milano, per seguire la sua squadra in trasferta. Decidono di fare una sosta all’area di servizio di Badia al Pino Est. Sul piazzale dell’autogrill stando agli atti processuali scoppia una rissa tra gli amici di Gabriele e un gruppo di tifosi juventini appartenenti a un club romano, anche loro diretti verso nord. Non è chiaro chi abbia fatto scoppiare la rissa; gli amici di Sandri sostengono di essere stati aggrediti dagli juventini, alcuni testimoni parlano di un terzo gruppo di persone, sedicenti laziali, che avrebbero aggredito per primi i bianconeri, il che escluderebbe il coinvolgimento del gruppo di Sandri. La rissa non accenna a finire, Gabriele e i suoi amici scappano verso l’auto per abbandonare l’area di servizio. Uno di loro viene addirittura investito con l’auto, colpito da una sportellata. I ragazzi riescono a salire in macchina e a darsi alla fuga. Nel senso di marcia opposto c’è l’autogrill di Badia al Pino Ovest, direzione Sud. Nel piazzale dell’area a 100 metri in linea d’aria dal punto in cui si trova l’automobile di Sandri stazionano due pattuglie della polizia stradale, un’addetta alle pulizie avvisa i poliziotti dei tafferugli in corso nell’autogrill opposto, gli agenti abbandonano la loro posizione e si dirigono verso la rete che separa l’autogrill dalla carreggiata, arrampicandosi per far notare la loro presenza. L’agente Spaccarotella, pare, spara un colpo di avvertimento in aria senza sortire alcun effetto. Un collega aziona allora la sirena e a quel punto gli ultras si dileguano. Mentre l’auto con a bordo Sandri imbocca l’uscita dell’area di Badia al pino est Spaccarotella segue l’auto correndo parallelamente per non perderli di vista. Ha ancora la pistola in mano. Questa volta mira all’altezza della vettura; dieci secondi per aggiustare la mira e spara un’altra volta: il proiettile attraversa le due carreggiate, rimbalza sulla recinzione metallica di Badia al Pino Est, trapassa il lunotto posteriore della Renault Scenic e termina la corsa nel collo di Gabriele Sandri. La morte è immediata, così veloce che gli amici sul momento non si accorgono di nulla, finché non vedono il fiotto di sangue uscire dal collo da Gabriele. Il 1 dicembre 2010 Spaccarotella viene condannato dalla Corte d’appello di Firenze a 9 anni di reclusione per omicidio volontario con dolo eventuale. “Spaccarotella non stava mirando alle gomme ma sparò perchè voleva colpire la macchina e l’ha presa: la vittima è stata colpita al collo, se ci fosse stata una deviazione di uno sparo diretto verso il basso, al massimo il colpo avrebbe attinto il petto!” Secondo il Pg, Spaccarotella agì sparando in risposta a quello che lui percepiva come “smacco o beffa”per il fatto che l’auto di Sandri “non si era fermata all’azionamento della sirena delle forze dell’ordine, dopo che lo stesso agente aveva sparato un colpo in aria”. Per il Pg, questa reazione dell’agente fu “abnorme, tanto che gli altri tre poliziotti che erano con lui non spararono e si comportarono diversamente”. “Se a sparare fosse stato un pregiudicato, anzichè un poliziotto, il giudice avrebbe impiegato solo una manciata di secondi per condannarlo per omicidio volontario con dolo eventuale”. l’agente Spaccarotella condannato in via definitiva per omicidio volontario non potrà più indossare una divisa per l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

VITO DANIELE (9 MAGGIO 2008)
Vito Daniele come tutti i venerdì dopo una settimana di lavoro tornava da Roma a Bari dalla sua famiglia. Verso le 13 chiamò la figlia che era in gita, poi successivamente la moglie. Stava percorrendo il solito tratto di autostrada. Al confine fra la provincia di Avellino e Benevento, verso le 14, si vide inseguito da una macchina della Guardia di finanza. Lo fermarono. Gli si fece incontro un agente in borghese, gli chiese i documenti per fare i dovuti controlli. Poi qui il tenente afferma che Vito scese dalla sua macchina e fu travolto da una bisarca in transito. Il motivo del fermo, si legge nel comunicato stampa della Guardia di finanza, era per eccesso di velocità. Il finanziere dichiara che Vito andava ad una velocità di 180 km/h anche se di questo non c’è prova. Chi ha percorso quel tratto di strada asserisce che è impossibile andare a quella velocità per via delle curve e la massiccia presenza di tir. Successivamente si apprende dalla stampa che in quel tratto di strada si stavano facendo controlli antidroga. La macchina di Vito è stato perquisita ma al suo interno non è stato trovato nulla se non la biancheria sporca e dei regali destinati alla moglie e ai figli. Sono molte le domande che sorgono su questo anomalo controllo da parte del finanziere: come mai il finanziere era alla guida di una volante anche se in borghese? E soprattutto perché era da solo? Sulle autostrade vige una regola particolare per cui il controllo del rispetto del codice della strada spetta alla sola polizia stradale della polizia di Stato. Una pattuglia dei carabinieri o della guardia di finanza può comunque intimare l’alt in caso di motivi urgenti di sicurezza o di polizia giudiziaria. Resta il fatto che l’alt prevede l’obbligo dell’uso della paletta metallica e in questo caso risulta un po’ difficile credere che un finanziere lanciato all’inseguimento di un’auto a 180 km/h su un tratto di strada pieno di curve possa aver utilizzato tale strumento visto che in macchina era da solo. Le Forze dell’Ordine sono istruite per fermare gli utenti della strada in condizioni di sicurezza cioè con buona visibilità, con disponibilità di spazio al di fuori della carreggiata e devono comunque agire tutelando l’incolumità di tutti. Vito viene fermato nei pressi di una galleria e in curva. Successivamente non si sa per quale motivo scende dalla macchina e viene travolto da una bisarca che lo uccide. Vito viene dipinto dalla stampa come un pazzo che camminava lungo l’autostrada. La moglie si batte da allora per sapere come mai suo marito sia morto quel giorno mentre tornava a casa, ma gli è stato intimato di non sollevare un polverone in questa ricerca di verità e giustizia. Alcune persone accorsero sul luogo dell’incidente ma durante il processo nessuno di questi testimoni è mai stato chiamato a testimoniare e alcune prove, come il biglietto dell’autostrada, sono misteriosamente sparite. Nel febbraio 2014 si è concluso il processo davanti al Tribunale di Benevento con l’assoluzione, per non aver commesso il fatto, del tenente della Guardia di Finanza Roberto Russo, e la condanna a sei mesi per l’autista del tir.

GIUSEPPE UVA (14 GIUGNO 2008)
Siamo a Varese, ore 2,55 del 14 Giugno 2008. In una stanza del comando provinciale dei carabinieri di via Aurelio Saffi si trova Giuseppe Uva denunciato a piede libero insieme al suo amico Alberto Biggiogero per “disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone.”
Giuseppe quella sera era in giro per la città con il suo amico Alberto Biggiogero. Un po’ alticci i due arrivano all’altezza di via Dandolo e per goliardia spostano alcune transenne con l’intenzione di chiudere la strada al traffico. Ridono, urlano, fanno confusione, troppo per gli abitanti del quartiere che chiamano i carabinieri. Sul luogo arriva una gazzella con a bordo il brigadiere Paolo Righetto e l’appuntato capo Stefano Dal Bosco. La fase del fermo e dell’arresto raccontata da Biggiogero discorda con quella messa a verbale: all’arrivo della gazzella il brigadiere Righetto scende dalla macchina urlando: ”Uva proprio te cercavo stanotte, questa non te la faccio passare liscia, questa te la faccio pagare!”. Inizia quello strano inseguimento a piedi tra Uva e il brigadiere che quando lo raggiunge lo scaraventa a terra e comincia a malmenarlo. Alberto interviene ma viene spinto via e finisce addosso all’altro agente che lo schiaffeggia accusandolo di averlo urtato volontariamente. Nel frattempo Uva viene trascinato verso la gazzella e scaraventato sui sedili posteriori. Il brigadiere continuava a inveire contro di lui prendendolo a calci e pugni. Giuseppe chiede aiuto ma Alberto non può intervenire in quanto immobilizzato dal secondo agente. In quel frangente arrivano due volanti della polizia e viene intimato a Biggiogero di salire in macchina. Lui chiede di andare con il suo amico ma la polizia, per tutta risposta gli mostra il manganello e gli chiede se abbia voglia di provarlo. A quel punto la gazzella con Giuseppe parte e Alberto non vedrà più il suo amico vivo, il peggio deve ancora arrivare. In caserma Alberto sente distintamente le urla dell’amico, ogni volta che chiede di smetterla con il pestaggio viene minacciato dagli agenti fino a che non decide di chiamare il 118 dal suo cellulare per richiedere un ambulanza. L’operatore del 118 dice ad Alberto che avrebbe mandato l’ambulanza ma al termine della telefonata anziché inviare il mezzo il 118 chiama la caserma per avere conferma. Gli viene risposto che non c’è bisogno di alcuna ambulanza e che la chiamata è stata effettuata da due ubriachi a cui adesso avrebbero tolto il cellulare. Alle 6 sono gli stessi carabinieri a chiamare il 118 per far portar via Giuseppe Uva. Alle 11.10, otto ore dopo l’arresto e quattro dopo il ricovero Uva è un uomo morto. In primo grado i Pubblici Ministeri Abate e Arduini portano sul banco degli imputati gli psichiatri Carlo Fraticelli, Matteo Catenazzi ed Enrica Finazzi con l’accusa di omicidio colposo. Per i Pm la morte di Giuseppe Uva è da ricondurre a colpa medica. La tesi dell’accusa era che Giuseppe fosse morto per l’interazione dei farmaci sedativi assunti in ospedale e il suo pregresso stato di ubriachezza. Perizie e controperizie fatte anche dopo la riesumazione del corpo dimostreranno che la cura somministrata in ospedale era corretta e che il motivo della morte di Giuseppe Uva non era da ricercarsi nella parte medica inquisita. Il giudice Muscato assolve i medici dall’accusa di omicidio colposo e nelle motivazioni non manca di sollevare critiche all’operato del Pm. Durante tutto il processo non è mai stato accertato cosa sia accaduto nella caserma di via Saffi e non è mai stato ascoltato il testimone chiave, Alberto Biggiogero. In data 11 marzo 2014 viene respinta dal giudice Battarino la richiesta avanzata dai due Pm di archiviazione nei confronti di due carabinieri e sei poliziotti. Il 20 marzo quindi i due Pm si vedono obbligati a formalizzare l’incriminazione per gli otto agenti per omicidio preterintenzionale, arresto illegale e abuso d’autorità, solo che secondo il Procuratore Capo facente funzioni Felice Isnardi i due Pm l’avrebbero si fatto ma in modo tale da costruire imputazioni deboli per illogicità e contraddittorietà, con il risultato di rischiare di minare in partenza un processo nel quale non credono e solo il gip li ha obbligati. Per questo il Procuratore Isnardi toglie il fascicolo ai due Pm con la convinzione che il capo d’imputazione formulato “non abbia rispettato le imposizioni imposte dall’ordinanza del Gip”.
Il 20 ottobre 2014 dopo sei anni dalla morte di Giuseppe Uva è partito un processo che vede sul banco degli imputati quegli agenti che lo hanno arrestato e tenuto in custodia quella notte.
Vengono indiziati due carabinieri e sei poliziotti, la corte di Varese, piccola città che conta neanche gli abitanti di un municipio della capitale, assolve tutti in primo grado.
Si riesce a trasferire il processo d’appello a Milano, un lunghissimo processo in cui si assiste, come nel primo alla vittimizzazione secondaria, la difesa degli otto imputati trasforma il suo operato in atto di accusa verso Giuseppe, screditando le parole di Lucia Uva e dei testimoni della parte civile, anche attraverso un inedito Ignazio La Russa come difensore degli imputati.
La conclusione il 31 maggio del 2018, la prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano assolve nuovamente i due carabinieri e i sei poliziotti “Non si può individuare con assoluta certezza che cosa abbia scatenato lo stress che, insieme ad altre concause, avrebbe provocato la morte di Giuseppe Uva, già affetto da una grave patologia cardiaca, di cui né lo stesso operaio né gli imputati erano a conoscenza. E per questo motivo non si può sostenere la sussistenza del “nesso causale” tra le condotte degli imputati e la morte dell’operaio.”
Le numerose lesioni sul corpo di Giuseppe non vengono tenute in considerazione, le testimonianze sul pestaggio neanche, Giuseppe è morto per lo stress, senza neanche cadere dalle scale, si è semplicemente accasciato a terra procurandosi da solo tumefazioni dal naso alla nuca, lividi sulla mano, sul fianco e lesioni all’ano.
Questo dice la sentenza.
Noi sappiamo chi è Stato

NIKI APRILE GATTI (24 GIUGNO 2008)
Niki è un ragazzo di 27 anni, esperto di informatica che lavora presso una società di cui è anche socio minoritario. La mattina del 19 giugno Niki va a colloquio dall’avvocato e quando esce viene arrestato con l’accusa di “frode informatica”. Ricordiamoci questa accusa perché sarà importante nel prosieguo. Viene tradotto nel supercarcere di Sollicciano mentre altri due arrestati verranno portati nel carcere di Rimini, che sarebbe la sede più naturale. Mamma Ornella contatta l’avvocato aziendale, che le dice che Niki è in isolamento per qualche giorno quindi è inutile cercare di contattarlo.
Inizia anche una serie di telefonate e pressioni varie per convincere la signora Ornella a cambiare avvocato, ma lei insiste. Vuole l’avvocato Marcolini che, essendo il legale aziendale, conosce meglio di ogni altro le vicende societarie. Il 20 giugno però, alle 20,58 viene spedito a Niki un telegramma: devi nominare l’avvocato X. Il telegramma viene spedito dalla casa di Niki stesso, che in teoria doveva essere sotto sequestro. Niki non sa che la madre è contraria e di fronte ad un invito così perentorio Niki esegue.
Il giorno dell’udienza, il 23 giugno, Ornella viene a sapere che suo figlio ha cambiato avvocato. La signora torna a casa senza aver potuto vedere suo figlio.
Il 24 giugno alle ore 13,15 arriva una telefonata sul cellulare della signora: “E’ il carcere di Sollicciano, suo figlio si è suicidato.”

STEFANO BRUNETTI (9 SETTEMBRE 2008)
Stefano Brunetti viene arrestato l’8 settembre 2008 per rissa. Viene fermato e portato in questura dalla polizia che intende raccogliere le informazioni necessarie interrogando le persone coinvolte. Secondo la versione rilasciata dai poliziotti Brunetti, rinchiuso in camera di sicurezza, si rende protagonista di atti di autolesionismo tanto da costringere gli agenti a chiamare il medico di guardia per sedarlo. Intorno alle due di notte viene condotto nel carcere di Velletri. Il giorno dopo viene ricoverato in pronto soccorso in condizioni critiche dove il dottore Claudio Cappello gli chiede: ” chi ti ha ridotto così?” e Brunetti risponde: “mi hanno menato le guardie del commissariato di Anzio” qualche ora dopo muore. Il Pm Dott. Luigi Paoletti a seguito della denuncia avvia un’indagine che dura due anni. Il rinvio a giudizio dei quattro poliziotti è così motivato: “Gli imputati sono accusati di aver cagionato in concorso tra loro la morte di Brunetti Stefano tratto in arresto dai medesimi e trattenuto presso le camere di sicurezza del commissariato fino all’accompagnamento in carcere, con atti diretti a commettere il delitto di percosse o lesioni personali, segnatamente colpendolo più volte con un mezzo contundente naturale o non naturale… con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di poteri o comunque violazioni di doveri inerenti a una pubblica funzione”. Il dott. Marella consulente medico legale della procura di Velletri che effettua l’autopsia rileva che le lesioni sono state prodotte nelle 18-20 ore precedenti il decesso ovvero nell’arco di tempo della sua detenzione nella camera di sicurezza del commissariato. La morte è stata causata da una emorragia interna provocata dalla rottura di due costole. Il processo inizia il 26 settembre 2011 presso la Corte di Assise di Frosinone dove vengono ascoltati tutti i testimoni di ambo le parti. I nomi di dei quattro sono: Salvatore Lupoli, Massimo Cocuzza, Daniele Bruno e Alessio Sparacino. Il processo si è concluso il 7 giugno 2013. Dei quattro imputati solo Salvatore Lupoli ha parlato innanzi alla corte contraddicendosi nella sua deposizione con tempi e orari e accusando i medici del pronto soccorso di Velletri di non essere intervenuti in tempo. I giudici si pronunciano i primi di ottobre, assolvendo i quattro poliziotti dopo essersi consultati per non più di 30 minuti di camera di consiglio. Sentenza confermata anche in Appello e in Cassazione.

CARMELO CASTRO (29 MARZO 2009)
Il 24 Marzo 2009 Carmelo Castro viene arrestato dai carabinieri con l’accusa di aver partecipato a una rapina. Viene portato prima nella caserma dei carabinieri di Biancavilla poi in quella di Paternò. Il giorno dopo Carmelo viene trasferito nella casa circondariale di Catania, Piazza Lanza, dove quattro giorni dopo verrà trovato impiccato nella sua cella. Ufficialmente Carmelo muore per asfissia da impiccamento e il 27 luglio 2010 il giudice per le indagini preliminari in seguito alla richiesta del pubblico ministero dispone l’archiviazione del caso.
La versione di Agatuccia Castro, sorella di Carmelo, e di altre sue parenti è del tutto diversa. Le tre donne raccontano di aver cercato invano di parlare con Carmelo. Quando si presentano alla caserma di Paternò vengono invitate a sedersi in sala d’attesa dove sentono distintamente le urla e il pianto di Carmelo provenire dal piano di sopra. Quando Agatuccia prova a salire viene bloccata dai carabinieri che la invitano a tornare a casa. Le donne però restano all’esterno della caserma finché non vedono passare il ragazzo con diversi lividi e segni in faccia. Il tempo di un’occhiata fugace e Carmelo finisce dentro un’auto. Da allora, la sorella e le zie non vedranno mai più Carmelo vivo.
Vengono chiesti tre supplementi di indagine da parte di Antigone e di A buon diritto. Si chiede di indagare sulle urla sentite dai familiari e di disporre una nuova perizia medico legale sul presunto pestaggio. In seconda istanza ci sono molti punti oscuri sulla permanenza di Castro in carcere: la sorella racconta che il colloquio con Carmelo le è stato negato perché il ragazzo era in isolamento, disposizione di cui non è stato rintracciato alcun atto così come non esiste traccia agli atti di indagine della visita medica obbligatoria. Dal colloquio tra Carmelo e una psicologa di supporto emerge che il ragazzo era in uno stato di profonda prostrazione psicologica, perché si sentiva minacciato dagli altri coimputati. Nei successivi colloqui non erano stati riscontrati segnali che preludessero ad atti di autolesionismo o tendenze suicide. Infine nel terzo e ultimo esposto sono contenute questioni di fondamentale importanza: il lenzuolo e la cella del suicidio non sono stati sequestrati quando sarebbero stati utilissimi per approfondimenti di vario genere, inoltre si chiede di disporre una nuova autopsia per verificare se la morte di Castro sia compatibile con il suicidio: Carmelo era alto 175 cm, come ha potuto impiccarsi ad un letto a castello alto 170 cm?
Un primo flebile segnale la procura di Catania lo lancia il 5 maggio 2011, giorno in cui si riaprono le indagini., giorno in cui, provvidenzialmente, spunta fuori il lenzuolo dell’impiccagione ma il caso è stato poi definitivamente archiviato.

STEFANO FRAPPORTI (21 LUGLIO 2009)
Questa è la morte oscura e insensata di un uomo mite, un artigiano di Rovereto che ha iniziato la sua giornata con un giro in bici e l’ha finita impiccato in una cella del locale penitenziario. Stefano quel giorno esce di casa per raggiungere alcuni amici. Due carabinieri a bordo di un autocivetta lo fermano accusandolo di aver tagliato loro la strada. I militari si trovano sul posto per indagare su un presunto spaccio di droga in un bar lì vicino e devono aver scambiato Stefano per uno del giro. In seguito a una sommaria perquisizione si scopre che Stefano addosso non ha nulla ma a quanto pare avrebbe confessato spontaneamente di detenere nella sua abitazione una piccola quantità di hashish. Probabilmente i carabinieri lo hanno accompagnato a casa sua per perquisire l’abitazione e hanno trovato 99 grammi di hashish, suddivisi in due pezzi e nascosti negli unici mobili che i militari hanno spostato. Indizi sufficienti a ritenere Stefano uno spacciatore. I probabilmente sono d’obbligo perché non esistono testimoni che possano contraddire le versioni di carabinieri e polizia. Condotto in carcere risulta che Stefano abbia firmato un documento con cui rinunciava ad avvertire i suoi familiari dell’avvenuto arresto. All’ingresso in carcere, intorno alle 23,30 alcuni poliziotti penitenziari lo descrivono tranquillo e scherzoso; poche ore dopo verrà trovato impiccato nella sua cella. I famigliari avvertiti il giorno seguente hanno potuto vedere il corpo solo due giorni dopo, poco prima che Stefano venisse cremato per volontà della famiglia, anche se il permesso per la cremazione è stato ottenuto molto, forse troppo, in fretta. Familiari, amici, parenti e solidali si riuniscono in un’assemblea permanente e propongono una controinchiesta. Probabilmente non c’erano gli estremi per un arresto. Traballa che in casa di Stefano ci fosse tutto quell’hashish riportato nei verbali di arresto. Si tratta di verbali in cui si parla di arresto in flagranza di reato, mentre Stefano non stava commettendo alcun reato, verbali in cui Stefano viene definito spacciatore.
Il 2 novembre 2009 il pm chiede l’archiviazione. Il giudice accetta la richiesta ritenendo acclarato che Stefano sia stato tratto in arresto per il reato di detenzione di stupefacenti: l’eccessivo slancio di onestà di Stefano diventa flagranza di reato. In seguito all’esame tossicologico sono state trovate nel sangue di Frapporti modiche quantità di THC, il principio attivo dei cannabinoidi. Per il giudice queste modiche quantità avrebbero indotto Stefano al suicidio perché causa di effetti depressivi. Il 18 febbraio 2010 il caso viene quindi archiviato e da quel momento, non sarà più riaperto. Dopo l’archiviazione i liquidi organici di Stefano prelevati durante l’autopsia sono stati buttati via immediatamente, impedendo così alla famiglia di farli analizzare come avrebbe voluto.

FRANCO MASTROGIOVANNI (4 AGOSTO 2009)
E’ un maestro elementare di 58 anni che il giorno 4 agosto 2009 muore nel reparto di psichiatria dell’ospedale pubblico “San Luca” di Vallo della Lucania dopo un sequestro di persona e una contenzione illegale (legato mani e piedi ad una branda) durata oltre 80 ore e ripresa dalle telecamere di sorveglianza del reparto. Francesco è stato ricoverato presso il reparto di psichiatria in esecuzione di un’ordinanza di TSO disposta dal sindaco del Comune di Pollica il giorno 31 luglio ma eseguita, con un ingente dispiegamento di forze dell’ordine, non nel territorio del Comune di Pollica, ma in quello del comune di San Mauro Cilento. Francesco è stato inseguito dalle forze dell’ordine già a a partire dalle ore 8 circa del 31 luglio e prima dell’intervento del personale sanitario e prima dell’emanazione dell’ordinanza di T.S.O. e dagli atti giudiziari non risulta che ricorra quello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. che avrebbe giustificato il comportamento delle forze dell’ordine. Francesco in un primo momento ha cercato di evitare la cattura ma dopo si è consegnato spontaneamente al personale sanitario nel frattempo intervenuto”. Le motivazioni del TSO non sono del tutte chiare, il sindaco del paese di Pollica, Vassallo, rilascia varie versioni ai giornali locali. “Il primo T.S.O. a carico di Francesco è stato disposto sempre con ordinanza del Comune di Pollica nel 2002 e all’insaputa dei familiari che unitamente ad amici e conoscenti sono rimasti basiti dall’emanazione ed esecuzione di un provvedimento così drastico e stigmatizzante a carico del loro caro. Francesco giunge nel reparto alle ore 12,15 del 31 luglio 2009, non è per nulla aggressivo e accetta che gli venga praticata la quarta iniezione di sedativi. Si siede al letto, consuma un pasto e poi cade in un sonno profondo. Contenzione: alle ore 14 circa, mentre dorme, viene legato, polsi e caviglie. Tenta varie volte di alzarsi dal letto, ma inutilmente. Non viene alimentato né gli danno da bere. L’unica terapia consiste nell’applicazione di flebo: la prima il giorno 31 luglio, la seconda soltanto il 2 agosto 2010. Non viene mai visitato da un medico e gli infermieri lo avvicinano soltanto per occuparsi delle fasce di contenzione e per far rimuovere da un’addetta alle pulizie, con uno spazzolone, le copiose macchie di sangue sul pavimento.
Per i primi giorni Francesco viene lasciato addirittura nudo nel suo letto senza neanche un lenzuolo. Solo in un secondo momento gli viene fatto indossare un pannolone per incontinenti (che sarà sostituito una sola volta). Morirà nella più completa solitudine la notte del 4 agosto 2009, intorno alle ore 2. Soltanto intorno alle 7,30 gli infermieri si accorgono che il paziente è spirato e tentano di rianimarlo. Il pomeriggio del 3 agosto 2009 alla nipote Grazia – che si reca presso il reparto di psichiatria – non viene consentito di fare visita allo zio perché, a dire del medico di turno, Francesco stava riposando tranquillamente e la presenza dei familiari avrebbe potuto agitarlo. In primo grado sono stati condannati sei medici del reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania. Cinque per sequestro di persona, morte come consenguenza di altro delitto (il sequestro stesso) e falso in atto pubblico. Il sesto è stato riconosciuto colpevole solo del reato di sequestro di persona. Le pene inflitte vanno dai 2 ai 4 anni con interdizione dall’esercizio della professione per 5 anni. I medici sono stati condannati anche al pagamento del risarcimento alle parti civili e delle spese processuali. Assolti invece i 12 infermieri accusati di sequestro di persona, illecita contenzione e omicidio colposo. Il 7 novembre è cominciato il processo d’appello contro la sentenza pronunciata il 30 ottobre 2012. L’atto di impugnazione è firmato dal sostituto Procuratore Martuscelli e dal Procuratore capo Grippo. I due magistrati sostengono che la sentenza vada riformata per il motivo assorbente che essa ha operato una riduzione dell’attività e del profilo professionale dell’infermiere riducendolo a mero “esecutore di ordini”, mentre oggi ha un ruolo ed un suo statuto ben delineato come si rileva dall’attività legislativa sviluppata dall’anno 1994 ad oggi, e per questo chiedono che siano aumentate le pene inflitte ai medici in primo grado e che vengano condannati anche gli infermieri. In appello confermata la condanna per i medici e condannati anche i sei infermieri ad un anno e tre mesi di reclusione. 

STEFANO CUCCHI (22 OTTOBRE 2009)
La fine di Stefano Cucchi comincia dal momento in cui i carabinieri lo arrestano al Parco degli acquedotti nel quartiere Casilino di Roma per detenzione di sostanze stupefacenti: 25 grammi di hashish, una modica quantità di cocaina e farmaci antiepilettici scambiati per pasticche d’ecstasy. All’arresto segue una perquisizione nell’appartamento dei genitori dove Stefano dichiara di risiedere e dove i militari non troveranno niente. In quella circostanza i genitori ricordano di averlo visto in buone condizioni e senza segni sul viso. Dopo la perquisizione Stefano verrà accompagnato in caserma dove trascorrerà la notte. In serata viene richiesto l’intervento del 118 da parte dei carabinieri per verificare lo stato di salute del fermato, ma pare che Cucchi abbia rifiutato la visita, nonostante apparisse sofferente. La mattina seguente viene accompagnato in tribunale dove i carabinieri lo consegnano alla polizia penitenziaria. Questi ultimi richiedono un’altra visita medica che riscontra lesioni ecchimotiche in regione palpebrale di lieve entità e colorito purpureo. Il referto parla anche di dolore e lesioni alla regione sacrale e alle gambe ma che il paziente rifiuta di farsi ispezionare. Dopo la convalida dell’arresto Stefano viene portato al carcere di Regina Coeli dove viene sottoposto alla visita d’ingresso come prevede il regolamento. Il medico ne ordina subito l’invio al pronto soccorso del Fatebenefratelli dove Cucchi rifiuta il ricovero. Verrà dimesso con diagnosi di frattura del corpo vertebrale L3 sull’emisoma sinistro e frattura I° vertebra coccigea. In sintesi, Stefano, sano al momento dell’arresto, il giorno dopo ha diversi lividi sul volto e due vertebre fratturate, cammina male e necessita il ricovero. Il tutto causato, secondo i referti, da una caduta dalle scale. Cucchi viene quindi riaccompagnato a Regina Coeli ma il giorno dopo, per assoluta incompatibilità col regime carcerario, viene riportato al pronto soccorso dell’ospedale. Questa volta viene imposto il ricovero e Stefano si ritrova nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Durante i giorni del ricovero la famiglia del giovane non ha mai potuto vederlo, perché l’amministrazione penitenziaria impediva qualsiasi contatto. Stefano morirà alle 6,45 del 22 ottobre 2009 dopo una via crucis giudiziaria e sanitaria durata quasi una settimana. Tutti i medici che lo hanno visitato suggerivano riposo per le vertebre fratturate e hanno sempre detto che le funzioni vitali erano normali. Stefano muore pesando 37 chili, disidratato, il volto livido e la bocca digrignata. Dopo la sua morte si è detto che Stefano rifiutava le cure e che chiedeva insistentemente di parlare con il suo avvocato. I Pm incaricano come consulente medico legale il dottor Albarello che nella sua perizia afferma che Stefano non è morto per i numerosi traumi sul corpo né per disidratazione. Cucchi sarebbe morto per le negligenze dei medici che lo avrebbero abbandonato a se stesso. Di botte e tante si parlerà invece nella consulenza di parte civile. Si rimarcherà la responsabilità di medici e sanitari che non hanno attentamente vigilato sul suo stato di salute ma si individuerà un nesso tra le fratture ossee e il peggioramento delle funzioni vitali. Questo implica un collegamento tra le percosse e la morte. Nella sentenza di primo grado del 5/6/2013 vengono condannati i medici Aldo Fierro (responsabile del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini), Stefano Cordi, Flaminia Bruno, Luigi Preite de Marchis e Silvia Di Carlo con pene che vanno dai 2 anni a 1 anno e 4 mesi per abbandono di persona incapace e favoreggiamento e omissione di referto. Il medico Rosita Caponetti viene invece condannata a 8 mesi per falso e abuso d’ufficio. Per tutti pena sospesa.
Gli infermieri e guardie carcerarie vengono assolti. I primi da i capi d’accusa sopra citati, i secondi dall’accusa di lesioni aggravate.
Nel processo d’appello la Corte d’Assise d’Appello di Roma rovescia la sentenza di primo grado assolvendo tutti gli imputati per insufficienza di prove il 31/10/2014
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SIMONE LA PENNA (25 NOVEMBRE 2009)
32 anni, muore il 26 novembre 2009 nel carcere romano di Regina Coeli. Era in carcere per reati legati alla droga e soffriva di un’anoressia nervosa che gli aveva fatto perdere oltre 20 chili di peso in due mesi. Dopo un mese di detenzione, Simone La Penna iniziò a perdere velocemente peso, il vomito era ricorrente e le analisi indicavano degli squilibri nella presenza di potassio. Lo portarono nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo dove grazie ad una terapia indovinata cominciò a dare segni di miglioramento. Ma non appena tornava in carcere, Simone ricominciava a vomitare e dimagrire. L’8 giugno del 2009 venne trasferito presso il reparto medico del carcere di Regina Coeli. Qui lo stato di denutrizione di Simone La Penna precipitò in un mese, tanto da essere ricoverato il 27 luglio all’ospedale Sandro Pertini, dove restò due giorni per ricevere una terapia mirata. Fino a che, il 26 novembre, alle 8 di mattina due infermieri del carcere di Regina Coeli si ritrovarono a praticare le operazioni di rianimazione sul corpo di Simone La Penna, che dopo dieci minuti morì. In quel momento pesava 49 chili.
Furono indagate per omicidio colposo sette persone tra medici e infermieri, solo a febbraio del 2012 sono stati rinviati a giudizio i tre medici interni al carcere, il dirigente del reparto Andrea Franceschini e i due medici, Andrea Silvano e Giuseppe Tizzano, incaricati delle cure per Simone.
A dicembre 2014 il giudice monocratico ha condannato per omicidio colposo, a un anno di reclusione, Andrea Franceschini e Andrea Silvano, per non essersi accorti del grave deperimento di Simone La penna, obbligandoli a corrispondere ai familiari del ragazzo una provvisionale di 30 mila euro. Assolto per non aver commesso il fatto Giuseppe Tizzano.
Sentenza confermata anche in appello.
Il 24 ottobre 2018, la quarta sezione della corte di Cassazione, ha assolto definitivamente sia il direttore sanitario Andrea Franceschini per “non aver commesso il fatto”, riconoscendo l’estinzione per prescrizione delle accuse nei confronti di Andrea Silvano. Ha però fatto salvi, ai fini degli effetti civili, le condanne.
Nove mesi di sofferenza, nove mesi di indifferenza, 40 chili persi e Simone non è più tornato a casa da sua moglie e dalla sua bambina.

AZIZ AMIRI (6 FEBBRAIO 2010)
Il caso di Aziz Amiri è emerso per merito di Hillary Clinton, segretaria del dipartimento di Stato americano, che nel rapporto annuale sui diritti umani nel mondo ha dedicato un capitolo all’Italia.
Aziz, in Italia da poco più di un mese senza permesso di soggiorno e ospite a Bergamo da un fratello, la sera del 6 febbraio 2010 era in auto con un suo connazionale a Mornico al Serio. Un auto dei carabinieri si ferma a pochi centimetri di distanza dalla Peugeot, bloccandone la via di fuga verso il retro ritenendo che i due si trovassero sul posto per spaccio. I due militari, in borghese, scendono dalla volante e si posizionano all’altezza delle portiere anteriori dell’auto dei due ragazzi marocchini. I carabinieri dichiarano che il loro intento è quello di fare un semplice appostamento, invece decidono di intervenire senza che sia chiaro il motivo. A questo punto il conducente della Peugeot avrebbe ingranato la retro e avrebbe dato inizio ad un tentativo di speronamento della Fiat Punto per aprirsi un varco, il carabiniere avrebbe perso l’equilibrio e sarebbe caduto a terra. La Peugeot continuava nelle sue manovre per cercare di fuggire e il carabiniere che si sarebbe visto in pericolo avrebbe a quel punto impugnato la pistola semiautomatica. Ci sono due elementi abbastanza rilevanti che non sono stati approfonditi dall’inchiesta nelle ore successive ai fatti. La Beretta calibro 9 da cui è partito il colpo che ha ucciso Aziz Amiri non è un’arma di ordinanza in dotazione ai carabinieri. La pistola è un’arma personale che il militare avrebbe portato con sé durante l’operazione di quella sera. Il secondo elemento è la scomparsa del conducente della Peugeot, il ragazzo che era in auto con Aziz ovvero l’unico vero testimone della vicenda oltre naturalmente ai due carabinieri. Inspiegabilmente dopo l’uccisione di Aziz è riuscito a dileguarsi sotto il naso dei due militari. Altro dato rilevante: il carabiniere nella sua ricostruzione dice che al momento della caduta sarebbe partito uno sparo accidentale che avrebbe ucciso Aziz. Un testimone, che non sarà mai ascoltato, dice testualmente: “Ho sentito esplodere i tre colpi,loro lì dopo… dopo dicevano l’hai ammazzato, l’hai ammazzato…. Qualcosa del genere”. Le indagini nei confronti del carabiniere indagato per omicidio colposo nei confronti di Aziz sono state affidate agli stessi carabinieri e i rilievi balistici al Ris di Parma, sezione dell’Arma dei Carabinieri.

MARIA ROSANNA CARRUS (8 APRILE 2010)
71 anni vedova, picchiata, rapinata, soffocata, uccisa e bruciata nella sua casa a Siliqua. Ci sono molti lati oscuri che vanno chiariti in questa vicenda, come il ruolo delle forze dell’ordine che erano state allertate prima che accadessero i fatti ma non hanno fatto nulla per impedire le tragedia. La tranquillità di Siliqua era turbata dalla presenza di un gruppo di giovani criminali, noti sia alla popolazione che alle forze dell’ordine. Si trattava di una banda composta da tre ragazzi, ai quali saltuariamente si aggiungevano diversi complici, dediti allo spaccio e al consumo di sostanze stupefacenti, specializzata in furti e rapine negli appartamenti di anziani soli. Maria Rosanna Carrus è stata uccisa l’ 08 Aprile 2010 tra le 14,00 e le 15,00: mentre uno dei due maggiorenni la immobilizzava l’altro metteva a soqquadro tutta la casa in cerca di denaro e oggetti di valore e poi veniva aiutato dall’altro che si era liberato perché Maria Rosanna aveva perso i sensi. In tarda serata vengono allertati i carabinieri perché viene notata un’anomalia nell’abitazione di Maria Rosanna: la serranda basculante è aperta, cosa insolita e non nelle abitudini della signora Carrus. I carabinieri si fermano, controllano i cancelli che risultano chiusi, guardano con il faro in dotazione e vedono le persiane chiuse e il portoncino all’interno del cortile accostato come se fosse chiuso ma non si accertano suonando il campanello o chiamando. Nel frattempo gli esecutori hanno pianificato un incendio che appiccano usando vestiti e lenzuola come micce. Il corpo di Maria è ancora nel seminterrato ormai privo di vita. I tre rapinatori prendono un materasso, lo appoggiano sopra il corpo imbevendolo di liquido infiammabile, appiccano il fuoco e scappano dal muro di cinta. Nei due giorni successivi nessuno delle forze dell’ordine si reca sul posto. I rapinatori intendono appiccare un incendio più grande e distruttivo in maniera da cancellare ogni prova residua. Ci riescono la sera del 10 aprile quando rientrano nella casa da quella serranda aperta, segnalata e mai controllata. Vengono chiamati i pompieri ma ormai Maria Rosanna è già morta da due giorni. Una morte che si poteva e si doveva evitare.

DANIELE FRANCESCHI (25 AGOSTO 2010)
Arrestato per una carta di credito clonata. Morto senza una ragione. La madre che chiedeva giustizia picchiata dagli agenti che le rompono le costole. Il corpo del ragazzo, Daniele Franceschi, restituito ai familiari in avanzato stato di decomposizione e senza gli organi interni. Non è successo in qualche remota regione tribale, ma nella Francia della grandeur che dopo anni non ha ancora dato una risposta sulla morte di un nostro concittadino e su comportamenti inaccettabili, degni della peggior dittatura. Le tre persone indagate nei mesi scorsi, un medico e due infermieri, sono state incriminate in queste ultime ore per omicidio involontario – corrispondente al nostro omicido colposo – sulla base di una serie di negligenze che avrebbero portato al decesso del detenuto. “Mi hanno picchiata fino a rompermi tre costole”. Anna Cira Antignano, la mamma di Daniele Franceschi, lancia nuovi pesanti accuse nei confronti delle autorità francesi. La donna, insieme alla cugina Maria Grazia Biagini, era andata a manifestare il 13 ottobre 2010 davanti al carcere di Grasse. “Era una cosa che mi sentivo dentro, la dovevo fare”, ha detto la donna. In mano avevano un lenzuolo bianco con su scritto: “Carcere assassino, me lo avete ammazzato due volte. Voglio giustizia”. La protesta non è però piaciuta ai vertici carcerari che hanno chiamato la polizia. “Ho cercato di spiegare che volevamo manifestare pacificamente — ha detto Anna Cira Antignano — ma loro mi hanno messo in ginocchio e mi hanno ammanettato. Uno con il tacco della scarpa me l’ha premuto contro il petto fino a rompermi tre costole”. Il 29 ottobre 2014 il tribunale francese di Grasse condanna il medico Jean Paul Estrade e l’infermiera Stephanie Colonna a 1 anno di reclusione e altrettanto di interdizione dalla professione per l’accusa di omicidio colposo. I due sono ritenuti di non aver curato Daniele che da giorni accusava violenti dolori al torace. L’altra infermiera, Françoise Boselli, per la quale il Pubblico Ministero aveva chiesto 6 mesi di reclusione e il pagamento di 3000 euro di multa è stata assolta così come l’ospedale di Grasse

ROBERTO COLLINA (21 SETTEMBRE 2010)
Mentre nel cielo delle illusioni si erano da poco spenti le luci dei fuochi d’artificio per la festa di San Matteo, patrono della città, Roberto cadeva sulla dura e reale terra di Largo Campo, vicino alla fontana del Vanvitelli, storico fulcro della movida salernitana, battendo la testa in seguito ad una colluttazione con due agenti della polizia in borghese e fuori servizio. Uno che presta servizio a Napoli ed un altro che lavora in Toscana. Roberto moriva sul selciato. I giornali raccontano che Roberto era in chiaro stato di ebbrezza ed avrebbe infastidito i familiari di uno dei due agenti. Questo sarebbe stato il motivo dell’origine del tentativo di bloccarlo e della colluttazione. Al macabro spettacolo hanno assistito decine di testimoni. Sono intervenuti un’ambulanza ed una squadra della sezione volanti. Il corpo è rimasto a terra per quasi quattro ore fino all’arrivo del magistrato che ha aperto un’inchiesta. E’ stata avvertita anche la mamma di Roberto che, arrivata sul posto, vicino al corpo del figlio, è scoppiata in lacrime e sorretta da amici e parenti, ha gridato più di una volta, “Me l’hanno ucciso, Me l’hanno ucciso”. La logica pretenderebbe che con un ubriaco dei professionisti evitassero colluttazioni e contatti. E che il “dare fastidio”, sempre per dei professionisti, non implicasse interventi ravvicinati ma allontanamento. A molti non è piaciuto il comunicato della questura di Salerno da cui sembra trasparire più che una descrizione dei fatti, la preoccupazione di conclamare a chiare lettere il ligio e ortodosso comportamento dei due poliziotti. Sul corpo di Roberto è stato disposto un esame autoptico, per verificare la presenza o meno di sostanze stupefacenti o alteranti e per stabilirne la causa della morte. Roberto Collina è morto durante i festeggiamenti di San Matteo che si dice sia un santo con due facce. Speriamo che nessuno in questa triste faccenda ne voglia oscurare una come succede sempre più spesso in Italia da qualche tempo.

CARLO SATURNO (7 APRILE 2011)
Carlo Saturno aveva 22 anni quando è stato trovato impiccato ad un lenzuolo nella cella di isolamento del carcere di Bari. È morto il 7 aprile, dopo una settimana in coma. Era rinchiuso nel penitenziario pugliese per furto ma era finito in isolamento per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale: in pratica si era scontrato con alcune agenti carcerari. Secondo una lettera anonima recapitata in procura, il 29 marzo, il giorno prima di suicidarsi, Saturno sarebbe stato in realtà picchiato. Al momento è aperta un’indagine per istigazione al suicidio contro ignoti. C’è da aggiungere però che i segni sul collo sono stati dichiarati compatibili sia con un’impiccagione che con uno strangolamento. “Ci diceva che lo picchiavano sempre, da un occhio non vedeva più per un pugno che gli tirarono lì dentro (per il distacco della retina). Ci raccontò di quando con uno schiaffo gli ruppero il timpano di un orecchio e che la mattina dopo si ritrovò con il cuscino pieno di sangue nella sua cella. Era terrorizzato dalle guardie, da quel periodo non ne è più uscito, soffriva di ansia, attacchi di panico, prendeva le gocce”. Carlo aveva denunciato un gruppo di agenti di polizia penitenziaria per degli episodi di violenza avvenuti anni prima nel carcere minorile di Lecce. Se fosse sopravvissuto, sarebbe stato uno dei testimoni chiave nel processo contro i poliziotti.

ABDERRAHMAN SAHLI (2 GIUGNO 2011)
Un giovane marocchino di 24 anni residente a Montagnana in provincia di Padova viene ritrovato morto in riva a un fiume con strane escoriazioni sulla fronte. Si racconta che a Montagnana i carabinieri abbiano l’odiosa abitudine di buttare nel fiume gli extracomunitari ubriachi per farli “rinsavire”. Non è possibile stabilire se si tratti di leggende metropolitane o fatti concreti. Il dato certo è che per la morte di Abderrahman sono stati indagati tre carabinieri.
I militari, la sera della sagra del prosciutto di Montagnana, avrebbero arrestato il giovane per impedirgli di importunare un gruppo di donne. In seguito lo avrebbero portato sul ponte che attraversa il fiume Frassine e da lì gettato in acqua. Finito il trattamento i carabinieri se ne sarebbero andati abbandonando Abderrahman al suo destino.
I suoi amici non hanno sue notizie per diversi giorni finché il 2 giugno 2011 il suo corpo non viene ritrovato sul greto di un canale artificiale. Il sospetto si tramuta in certezza. Tutti sanno che i carabinieri portano via gli stranieri ubriachi perché non diano fastidio agli abitanti del posto. I marocchini di Montagnana sono certi che il trattamento sia toccato anche ad Abderrahman, ma questa volta l’ibrido tra pesante punizione, goliardia e abuso di potere si è trasformato in tragedia.
Nei giorni successivi scoppia la protesta della comunità magrebina. Alcuni di loro dichiarano in un intervista che “Qui funziona così: ti caricano in macchina e ti buttano giù dal fiume. E noi che dobbiamo fare? Ad Abderrahman è capitato quello che è successo a me due volte: i carabinieri ci trovano ubriachi, ci fanno salire in macchina ammanettati e ci portano su quel ponte, ci insultano, ci tolgono le manette e ci buttano giù con un calcio. Noi ci salviamo perché riusciamo ad arrampicarci sulle rive. Questa pratica va avanti da quando è arrivato un maresciallo con i capelli bianchi, prima non era così”.

MICHELE FERRULLI (30 GIUGNO 2011)
Michele Ferrulli, 51 anni, originario di Bari ma residente a Milano dove lavorava come operaio edile. Michele con la sua famiglia occupava un alloggio in via Varsavia. Una persona mite e generosa, secondo chi lo conosceva bene, impegnato a combattere a favore degli abusivi delle case popolari con l’obbiettivo di ottenere per loro alloggi regolari e a norma di legge.
La vita di Michele si interrompe la sera del 30 giugno proprio in via Varsavia. Un residente segnala alla polizia la presenza di diverse persone che, per strada, ascoltano musica ad alto volume e si abbandonano a urla e schiamazzi. Il gruppetto è composto da Michele e da due suoi amici. Intervengono due volanti.
Al loro arrivo gli agenti dichiarano di aver chiesto i documenti ma di essere stati subito insultati da Michele che li minaccia e tanta di aggredirli. I poliziotti rispondono con la forza e lo immobilizzano a terra per ammanettarlo, operazione che è durata diversi minuti, forse troppi per il cuore di Michele Ferrulli. La questura dichiara la morte per infarto.
Le testimonianze dei due amici e di altre persone presenti parlano di un pestaggio da parte dei quattro agenti. Alcuni dicono che Michele veniva selvaggiamente picchiato mentre gridava ripetutamente aiuto.
Una circostanza confermata dai nuovi video diffusi dall’avvocato Anselmo, differenti dai primi per via della presenza dell’audio originale. Si sentono le urla e le invocazioni di aiuto di Ferrulli, i commenti in sottofondo, in lingua straniera, di chi in quel momento stava girando le immagini e si possono nitidamente vedere i colpi di manganello e i pugni.

BERNARDINO BUDRONI (30 LUGLIO 2011)
Una persona è stata uccisa su un’autostrada da un agente di polizia. E’ accaduto il 30 luglio del 2011 sul grande raccordo anulare di Roma ma forse nessuno se n’è reso conto perché i giornali hanno usato quasi tutti parole depistanti: “Sparatoria sul gra”, “Inseguimento di uno stalker”, qualcuno lo paragonò al film Shine. Si chiamava Bernardino Budroni, per tutti Dino. Soprattutto per i suoi genitori, per la sorella Claudia, il cognato Fabrizio, le nipoti. Il proiettile calibro 9 lo ha trapassato dal fianco sinistro, perforando i polmoni e il cuore. E’ successo al km 11, lo svincolo per Mentana. Chi ha sparato è un agente scelto, quando lo ha fatto aveva 28 anni. Nessuno gli ordinò di farlo quella notte, nemmeno di mirare alle ruote. Dino aveva dodici anni in più di lui. L’agente scelto, pare, era seduto dalla parte sbagliata. Doveva trovarsi alla guida della volante 10 non sull’altro sedile. Quale «emergenza» si verificò per non farlo guidare? Di fronte al pm, due giorni dopo i fatti, dirà di aver esploso due colpi dopo un inseguimento di dieci minuti. Anche quello che non uccise andò fuori bersaglio, bucando la lamiera dello sportello. Altre due auto, Beta Como della polizia e una gazzella dei carabinieri, parteciparono all’operazione “agganciando” la volante 10 nel tragitto. Erano più o meno le 5 del mattino del sabato dell’esodo estivo. La Focus era praticamente incastrata sulla destra della corsia. I carabinieri l’avevano sorpassata e s’erano messi di traverso, lo sportello di destra toccava appena la Focus che a sua volta ha toccato il guardrail. Un piccolo segno di vernice, grande come un’unghia sta ancora lì a testimoniarlo, a pochi metri dalla foto e dai fiori, sempre freschi. Sullo sportello posteriore destro di Budroni c’è il segno di una gomma (forse) di Beta Como. La scena sembra quella di una macchina inseguita che prova a divincolarsi zigzagando. L’agente che ha sparato riferisce che era stato parecchio occupato dall’una meno un quarto di quella notte a cercare il Budroni che era andato sotto l’abitazione della sua ragazza, nel quartiere di Cinecittà a una ventina di chilometri da dove è finito l’inseguimento. Un brutto caso di danneggiamento di porte e cancelli, di sms minacciosi e di disturbo della quiete pubblica, probabilmente. “Crimini” che non prevedono la fucilazione immediata. Chi ha sparato sapeva quasi tutto di Budroni: che abitava nel comune di Fontenuova e che aveva una pendenza per il possesso di una balestra (acquistabile ovunque) e un fuciletto ad aria compressa. Per questo, così ha dichiarato, ha tirato fuori la Beretta Parabellum quando ha affiancato la Focus verde mare. Dice di essere stato col braccio «perfettamente in asse» con la ruota posteriore sinistra ma che la Focus provava a svicolare spostando di scatto il bersaglio. Quanto forte andasse e quanto tempo sia passato tra lo sparo e l’arresto l’agente scelto non ricorda. Di certo egli stesso ha dichiarato che Dino non era armato ma agiva forse sotto l’effetto di droghe. Droghe che la perizia tossicologica quantificherà in modeste e antiche tracce di cannabis. Budroni, comunque, aveva alzato il gomito. Un “reato” che non prevede la pena di morte per esecuzione sommaria.

MASSIMO CASALNUOVO (20 AGOSTO 2011)
Massimo muore il 20 agosto del 2011 intorno alle 21. Arriva all’ospedale di Polla agonizzante dopo la caduta dal motorino. Il ragazzo viaggiava su uno scooter, era senza casco ma attenzione: non è morto per aver sbattuto la testa (come si tende a far credere) ma per la violenta botta al torace. Massimo era appena uscito dall’officina in cui lavorava con il padre, non prendeva il motorino da un po’ di tempo. Lo aveva appena aggiustato. Era stato a fare un giro e stava tornando a casa. Non aveva indossato il casco. Lo fanno un po’ tutti a Buonabitacolo. Quella sera la pattuglia dei carabinieri con a bordo il maresciallo Giovanni Cunsolo e l’appuntato Luca Chirichella decide di controllare i ragazzi senza casco, ne fermano due: Elia Marchesano e Emilio Risi. I carabinieri mettono la macchina di traverso sulla strada e formano una specie di posto di blocco. Peccato che lo facciano dietro una curva. La “scena” si svolge sulla strada principale della città, via Grancia, che porta a una piccola piazza dove di sera si ritrova la gente del paese. Cunsolo è seduto dentro la gazzella e sta redigendo la contravvenzione.
Massimo sta arrivando con il suo scooter Beta 50. Sin dal primo momento la versione dei due ragazzi fermati e quella del carabiniere sono opposte. Cunsolo dirà che Massimo, arrivato davanti al “posto di blocco”, accelera, quasi lo investe. Poi perde il controllo del ciclomotore e cade battendo la testa su un muretto a secco. I due ragazzi, interrogati la notte dell'”incidente” dal pm Sessa della Procura di Sala Consilina, hanno invece fornito un’altra versione: Cunsolo era dentro alla macchina, quando vede arrivare Massimo esce dall’auto e per fermarlo sferra un calcio sulla carena del motorino. E’ quel calcio che fa perdere l’equilibrio a Massimo che cade, e muore.

ILARIO AURILIA (25 AGOSTO 2011)
Sono circa le 4 del mattino del 25 agosto 2011 quando Ilario Aurilia muore di seguito a una caduta dal suo scooter. Stando al rapporto della polizia all’epoca dei fatti il giovane sarebbe morto in seguito alle gravissime ferite riportate in un incidente stradale mentre era a bordo del suo scooter 50 quando sarebbe andato a sbattere contro un palo dell’illuminazione pubblica. Una versione ritenuta attendibile dal pubblico ministero titolare del fascicolo aperto dopo le denunce dei familiari del ragazzo, seguite a voci insistenti su un presunto inseguimento di una macchina delle forze dell’ordine, che nel giro di poche settimane chiese l’archiviazione del caso come “tragica fatalità, provocata esclusivamente dalla condotta di guida della vittima”. Non è però dello stesso avviso il gip che anche in seguito alle numerose incongruenze fatte emergere dal legale della famiglia Aurilia rigetta la richiesta di archiviazione, dispone un supplemento di indagini e la riesumazione della salma per effettuare l’autopsia. Il caso Aurilia sconvolse Torre del Greco nell’agosto del 2011. Poche ore dopo la morte di Ilario in città iniziarono a circolare voci di un inseguimento conclusosi tragicamente. Diversi amici di Ilario Aurilia – conosciuto a Torre del Greco per la sua passione per la Turris – raccontarono del coinvolgimento nello schianto di un’auto delle forze dell’ordine. Una versione successivamente ribadita dalla zia del ventitreenne che – chattando su facebook con un internauta dal nickname Peel – trovò conferme di un presunto inseguimento finito in tragedia. Una ricostruzione dei fatti diametralmente opposta rispetto alla dinamica messa nera su bianco dagli agenti del locale commissariato di polizia, intervenuti sul posto dopo la segnalazione dell’incidente da parte di una pattuglia della guardia di finanza. Da qui la raffica di richieste avanzate dall’avvocato Giancarlo Panariello per fugare ogni dubbio sulla morte del ventitreenne: a partire dall’acquisizione delle immagini registrate dal sistema di videosorveglianza di un’attività commerciale della zona – le telecamere sono puntate proprio in direzione del luogo dell’impatto – fino all’identificazione dell’internauta noto come Peel. Senza trascurare le deposizioni del testimone oculare, il cui racconto – così come l’esito dell’autopsia eseguita dal medico legale che avrebbe rivelato che a provocare la morte di Ilario Aurilia sarebbe stata una sola ferita alla testa, difficilmente compatibile con la doppia carambola contro il palo della luce e il ciglio del marciapiede – sarebbe in contrasto con la «frettolosa» dinamica ricostruita nei brogliacci degli investigatori.

CRISTIAN DE CUPIS (12 NOVEMBRE 2011)
Cristian De Cupis, romano di 36 anni, residente nel quartiere Garbatella era affetto da diverse problematiche di carattere sanitario. Viene arrestato il 9 novembre alla Stazione Termini per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Condotto al Pronto Soccorso del Santo Spirito l’uomo, che aveva delle escoriazioni alla fronte, avrebbe riferito ai medici di essere stato percosso dagli agenti che lo hanno arrestato e, per questo, avrebbe anche sporto denuncia. Il 10 novembre, De Cupis viene trasferito, in ambulanza e scortato dalla polizia, nella struttura protetta dell’ospedale “Belcolle” di Viterbo dove viene sottoposto a tutti gli esami di rito, compresa una Tac. Il giorno seguente sarebbe stato anche convalidato l’arresto e disposti gli arresti domiciliari non appena finito il ricovero. La mattina del 12 novembre, però, De Cupis muore. I familiari sarebbero stati avvertiti dell’arresto solo dopo l’avvenuto decesso. A chi lo ha incontrato nei giorni del ricovero l’uomo era parso a tratti agitato e a tratti lucido, comunque non in condizioni che potessero far immaginare una morte repentina. A conferma di ciò, la circostanza che l’uomo, solo due giorni prima dell’arresto, si era rivolto ad una struttura di orientamento per detenuti per cercare un lavoro.
La sciarpa della Roma stretta al collo, sopra le ecchimosi e i lividi che scendono dalla nuca alle spalle, gli occhi chiusi per sempre, quello sinistro piuttosto gonfio e tumefatto, come un po’ tutta quella parte del viso che è violacea. Altre ecchimosi sul fianco sinistro e vasti ematomi sulle mani, letteralmente devastate. Almeno quattro ferite di forma circolare e di una certa profondità nella parte frontale del cranio, una lesione su quella parietale sinistra e un’altra più profonda dietro, sulla nuca, da cui deve essere uscito molto sangue, visto che sul giubbino – lavato o comunque smacchiato da qualcuno – restano degli aloni rossi. L’ultima immagine di Cristian De Cupis assomiglia un po’ ai suoi ultimi tre giorni, sghemba, poco nitida, violenta. Ma è proprio quell’alone opaco che rende così dura la fine piuttosto strana di un uomo che pure era abituato a remare controcorrente e senza paracadute. Ha perso la madre che era ancora un bambino, non ha mai avuto un vero padre e all’età in cui si prende la patente si era già infilato sulla sua cattiva strada, già molto scivolosa. Dentro e fuori da caserme, celle e comunità: detenuto a Regina Coeli, Rebibbia, poi Terni, Viterbo, Velletri, Secondigliano, alternando periodi di cura ad Amelia da Pierino Gelmini, a Bologna, Ravenna, Milano, ma anche a San Patrignano, l’ultima volta, nel luglio scorso, due mesi e poi fuori, perché Cristian non ce la faceva più a passare da una prigione a un centro di recupero. Denunce, verbali, carabinieri, polizia. Piccoli furti per racimolare qualche soldo per la dose, e dopo la dose daccapo coi furti, e via così per settimane, mesi, anni. Non ne faranno un santino, ma certo non meritava di diventare un fascicolo per omicidio colposo sul tavolo di un magistrato.

MARCELO VALENTINO GOMEZ CORTES (13 FEBBRAIO 2012)
Marcelo Valentino Gomez Cortes era un ragazzo cileno di 29 anni viveva a Milano ed era pregiudicato. Marcelo era colpevole solo di correre, di scappare dal luogo di una rissa. Il destino ha voluto che sulla sua strada trovasse Alessandro Amigoni, vigile urbano di Milano. Dalle prime ricostruzioni l’agente afferma che Cortes era armato e che a solo scopo intimidatorio e con l’arma non rivolta verso la vittima avrebbe esploso un colpo da una distanza di 15 – 20 metri. La perizia disposta dal Pm invece ha accertato che il colpo esploso dall’agente è partito da una distanza che va da un minimo di 50 centimetri ad un massimo di 2 metri e 80 centimetri. Il colpo secondo le indagini avrebbe raggiunto Cortes alla schiena mentre correva e sarebbe uscito dal cuore. Amigoni è stato condannato a dieci anni di reclusione, sentenza pronunciata al termine del processo con rito abbreviato dal gup Stefania Donadeo, che ha comunque riconosciuto all’imputato le attenuanti del caso respingendo la richiesta del Pm di 14 anni di reclusione. Unico risarcimento previsto 180 mila euro a testa per ognuno dei due figli di Cortes.

ETTORE STOCCHINO (10 LUGLIO 2012)
Ettore è uscito di casa alle 3.45 del mattino del 10 luglio 2012 ed è stato ritrovato cadavere alle 9.30 dello stesso giorno. Il padre ha dichiarato:”Quelle che risultano essere misteriose sono le modalità, la definizione più che fantasiosa del suicidio, molti retroscena e fatti antecedenti che il magistrato non ha voluto considerare. Ettore un mese prima era stato fermato e sembra addirittura minacciato da una pattuglia dei carabinieri di Segrate esattamente a poche decine di metri dove è stato poi dopo un mese rinvenuto cadavere”. Secondo i carabinieri e la stampa la tesi del suicidio sarebbe molto valida in quanto il padre è una trans in terapia ormonale che ha dichiarato: “non entro in merito, ora, del fatto che non avesse motivo per suicidarsi, tuttavia anche nelle modalità non mi tornano un sacco di cose, anche perché ho fatto immediatamente un sopralluogo sul luogo del ritrovamento. Alla luce di tutto ciò,oggi,a più di un anno dal fatto mi ritrovo con tutti i miei pc e cellulari sequestrati,nessuna notizia dell’esame autoptico e nessuna considerazione da parte del magistrato.” Primi dubbi sollevati dal padre: 1)Oltre a dover scavalcare un cancello si è dovuto arrampicare per un traliccio di ben 12 metri. Sforzo sovrumano per un fisico come era il suo : cicciottello, goffo e poco avvezzo agli sforzi fisici, che evitava sempre accuratamente. A scuola si faceva persino esonerare dall’educazione fisica. 2) Posizione anomala del corpo. Escoriazioni ed ecchimosi (tipiche da pestaggio scientifico) su parte bassa della schiena, ginocchia e gomiti (come se fosse stato trascinato lì). Viso e testa apparentemente intatti (purtroppo nelle foto pubblicate il viso non è visibile) a parte un rivolino di sangue dal naso e forse dalla bocca. Assenza di grosse perdite ematiche sul luogo. 3)T-shirt strappata, cinghia slacciata, pantaloncini abbassati e parzialmente strappati (erano nuovi di negozio). 4)Zero movente dal momento che finalmente tutto ciò per cui aveva lavorato e gran parte dei suoi progetti si stavano realizzando. 5)Conosceva il posto molto bene in quanto spesso ci andava a riflettere e meditare in santa pace. Ora le mie impressioni mi fanno ritenere in base a ciò, che l’ipotesi di suicidio sia quantomeno affrettata ed inconsistente. E qui partono le domande..doveva incontrare qualcuno conosciuto sul web?….qualcuno gli ha teso una trappola?….o forse ha trovato i suoi assassini per sbaglio ? Chi ha trovato davanti a sé ? “. Durante la notte il padre accortosi che il figlio non era in casa si è allarmato e ha chiesto notizie dapprima al 118 con esito negativo, è successivamente uscito di casa con la speranza di intercettare il figlio o la sua auto, esito ancora negativo. Si è messo allora sul balcone a scrutare la strada provinciale con la speranza di avvistarlo. Alle ore 5.00 avvista una fiat stilo dei carabinieri che (proveniente dal luogo dove Ettore è stato poi ritrovato) sgommando e con lampeggianti accesi si dirige verso la caserma. Da quel momento comincia a telefonare ai carabinieri dai quali riceve risposta solo verso le 7,40 con invito a presentarsi per la segnalazione della scomparsa in caserma alle 9,15, segnalazione che viene poi effettuata. Alle 10,30 il padre viene ricontattato ed invitato a presentarsi presso la caserma ed è solo in quel momento che apprende della tragica morte del figlio, con l’atroce sospetto che in caserma già sapessero della morte da diverse ore.

BOHLI KAYES (5 GIUGNO 2013)
Una morte sospetta, una foto agghiacciante e un “corvo” in caserma. Il caso è quello di Kayes Bohli, 36 anni, pregiudicato tunisino deceduto all’ospedale di Sanremo subito dopo l’arresto. Sono le 19.05, una telefonata anonima al 112 segnala uno spacciatore all’opera, i carabinieri si precipitano nel piazzale del supermercato Lidl di Riva Ligure, Bohli – vecchia conoscenza delle forze dell’ordine – si dà alla fuga. Poi il guardrail che Bohli non riesce a saltare, la caduta, il tentativo di sottrarsi all’arresto che sfocia in una colluttazione. “Uno dei carabinieri stava seduto a terra e teneva in grembo, stretta fra le cosce e rivolta a terra, la testa del tunisino. Contemporaneamente gli premeva sulla schiena con il suo corpo per tenerlo fermo”. E’ la ricostruzione fatta alla procura di Sanremo da un testimone oculare dei momenti decisivi della cattura e dell’immobilizzazione di Bohli. L’uomo è deceduto a causa della pressione sulla schiena subita nel corso del fermo. L’asfissia conseguente lo ha prima indebolito e poi ucciso nel giro di un paio d’ore. Il procuratore capo Roberto Cavallone non ha usato giri di parole: “Non è stato un caso Cucchi, tutto è durato al massimo 3 minuti, ma almeno uno dei carabinieri ha ecceduto nell’uso della forza e di questa morte deve farsi carico lo Stato e chiedere scusa ai famigliari della vittima”. Per l’episodio sono indagati per omicidio colposo i tre carabinieri della stazione di Santo Stefano al Mare che eseguirono l’operazione e che sono stati tutti trasferiti. Si aggiunge un nuovo, inquietante elemento il “corvo”. Ovvero il carabiniere, ancora in via di identificazione, che in quella drammatica serata del 5 giugno, nell’atrio della caserma, mentre i colleghi chiedevano l’intervento di un’ambulanza, ha scattato almeno una foto con un cellulare. L’immagine cui stanno ora lavorando gli inquirenti, è cruda. Sotto la testa una giacca ripiegata che gli fa da cuscino. Sullo zigomo destro un’ecchimosi, diverse escoriazioni su entrambi gli avambracci.

FRANCESCO SMERAGLIUOLO (8 GIUGNO 2013)
Francesco Smeragliuolo, 22 anni, arrestato il 1° maggio 2013 per una rapina. 39 giorni di carcere gli sono costati prima sedici chili e poi la vita stessa. E’ morto nel carcere di Monza sabato 8 giugno e sua madre, Giovanna D’Aiello, vorrebbe vederci chiaro. Per questo si è rivolta ad alcune associazioni come Antigone, A buon diritto e Acad. Esclusa l’ipotesi del suicidio. In una lettera recente alla fidanzata Francesco pensava “ai tanti progetti insieme”. L’autopsia, disposta dal magistrato, avrebbe escluso che la morte sia avvenuta per cause violente o per intossicazione da farmaci o droghe. Il responso è stato il solito: “decesso causato da arresto cardiocircolatorio”. Dalla casa circondariale nessuna spiegazione sul decesso, avvenuto nel pomeriggio di sabato 8 giugno. Il giovane si sarebbe sentito male ed è stato attivato il 118 in codice rosso. La direttrice si è limitata a dire: «C’è un’indagine in corso, bisogna attendere l’esito».

RICCARDO MAGHERINI (3 MARZO 2014)
Riccardo Magherini era un giovane uomo di quarant’anni che amava la vita e amava sorridere. Marito di Rozangela e padre di Brando, un bambino di due anni.
Piccolo imprenditore fiorentino, ed ex giocatore della Fiorentina, abitava nel popolare quartiere di San Frediano a Firenze. Una persona perbene, totalmente integrata nel tessuto sociale della città e del quartiere. Una persona attiva, solare, generosa, che svolgeva le sue attività anche viaggiando e con contatti di amicizia in tutto il mondo. Riccardo amava ed era amato da tutti.
La notte tra il 2 e il 3 marzo Riccardo è fuori per una cena di lavoro. Dopo cena, nel tragitto verso casa succede qualcosa che lo spaventa, scende dal taxi visibilmente agitato e lascia sull’auto tutti suoi effetti personali: è in preda ad un attacco di panico. Arriva nel suo quartiere – Borgo San Frediano – cercando e gridando AIUTO. Molte persone chiamano allora i carabinieri per segnalare quella che non è altro che la semplice ed accorata richiesta di soccorso di una persona in difficoltà. Una volta giunti sul posto, i carabinieri immobilizzano Riccardo e lo ammanettano tenendolo a terra in posizione prona. Il tutto avviene per strada, davanti a molti testimoni che raccontano di calci sferrati a Riccardo mentre era immobilizzato a terra. Alcune persone si affacciano alla finestra e assistono alla scena filmando il tutto. Si sente Riccardo che grida “aiuto”, “mi sparano”, “aiuto aiuto sto morendo” qualcuno grida “no i calci no!”. In seguito, nella ricostruzione dei concitati momenti dell’intervento, le lacune non tardano ad evidenziarsi: all’1,21 uno dei militari chiama la centrale operativa spiegando che sono intervenuti su una persona “completamente di fuori, a petto nudo, che urla”. All’1,24, il 118 invia una ambulanza. Parte un mezzo dalla vicina sede della Croce Rossa, con tre volontari a bordo. All’1,31, la centrale operativa dei carabinieri chiama di nuovo il 118 perché si sente la sirena ma l’ambulanza non è ancora arrivata e l’arrestato “fa ancora come un matto”. All’1,32, il 118 contatta la sede della Croce Rossa e un minuto più tardi, uno dei volontari chiama il 118, annuncia di essere sul posto e spiega che l’uomo “ha reagito in maniera violenta, gli sono addosso in due per tenerlo fermo e vogliono il medico” e che il medico è necessario per sedare l’arrestato. Si saprà poi che all’arrivo di quella prima ambulanza, Riccardo che giace a terra, è oramai immobile e silenzioso . Condizione, la sua, di cui il volontario non fa cenno, anzi, omette di specificarla alla centrale del 118, che all’1,35 contatta l’automedica . La situazione , invece, si profila immediatamente difficile e viene trascurata fino al tragico epilogo, tanto che l’ operatrice scherza, non avendo il minimo sentore del dramma incombente: “Ci vogliono due uomini forti, c’è uno che ha tirato le manette a un carabiniere, freddo non gli prende perché c’ha due carabinieri sopra”. Da questa frase, è evidente piuttosto, che almeno due carabinieri continuano a stare sul corpo di Riccardo anche dopo che quest’ultimo ha smesso di urlare e divincolarsi: Riccardo è già morto. E i necessari primi soccorsi di fatto vengono impediti. La famiglia , ha deciso di sporgere denuncia verso i 4 carabinieri per omicidio preterintenzionale e verso gli operatori del 118 per omicidio colposo. I testimoni infatti hanno affermato che per immobilizzare Riccardo i 4 agenti abbiano usato – come si legge nella denuncia sporta dal fratello e dal padre – “un uso della forza non previsto e contemplato nelle tecniche di immobilizzazione delle forze dell’ordine, fra cui: presa e stretta del collo con le mani; calci quantomeno ai fianchi-addome anche nel momento in cui era già steso prono a terra; prolungata pressione di più agenti sul suo corpo, compreso il tronco, in posizione prona sull’asfalto”. Inoltre, in attesa dell’ambulanza con il medico, durante l’intervento dei primi sanitari sul posto «non hanno provveduto nemmeno a rimuovere Riccardo da quella posizione (peraltro con l’addome scoperto appoggiato sull’asfalto freddo) né a liberarlo dalle manette, al fine di consentirgli quantomeno una migliore respirazione» i 4 agenti – non trovavano – le chiavi delle manette. E’ importante sottolineare, che nel verbale autoptico redatto dalla procura fiorentina, si esclude che la morte sia stata causata in forma esclusiva da overdose di cocaina come altresì sostenuto dai legali della difesa, dal momento che nel sangue è stato trovato un quantitativo di coca pari a 0,3 mg.
L’autopsia indica che le concause della morte, sono la disfunzione cardiaca dovuta allo stato di agitazione e stress procurati dalla situazione che stava vivendo Riccardo in quel momento e all’ASFISSIA, che di certo non si è procurato da solo. Sul corpo di Riccardo sono stati inoltre rinvenuti, numerosi segni della violenza subita quella notte, dalla “frattura costale e dello sterno con aspetti di vitalità”, alle varie emorragie interne tra cui quella al fegato in corrispondenza dei calci subiti.
Da subito parte un tentativo organizzato di insabbiamento e depistaggio su quanto accaduto. I 4 agenti coinvolti provvedono ad esporre denuncia contro Riccardo stesso, e a farsi refertare i presunti danni subiti in una presunta colluttazione, Riccardo viene denunciato per resistenza a pubblico ufficiale, violenze, furto di un telefonino ( lo aveva preso proprio per chiedere AIUTO). Le persone presenti, che hanno riferito delle percosse e delle vicende che quella notte, hanno condotto alla morte di Riccardo, sono state intimidite e minacciate. Addirittura, si annuncia un processo per direttissima, in cui si omette di comunicare ai testimoni della morte dell’ ”imputato”. Infine, non tutto il materiale audio fornito dal 118 è stato prodotto dalla procura, tant’è che risulta mancante proprio un colloquio telefonico in cui si rileva come i soccorsi siano stati impediti dagli agenti presenti.
E continua, in un seguito grottesco: non soddisfatti del verbale autoptico firmato da tutti i periti, il tossicologo nominato dalla procura Prof. Mari (anch’egli firmatario del verbale!), chiede di essere affiancato per una consulenza tossicologica dalla Prof.ssa Bertol (SUA MOGLIE!!), al fine di sottolineare e avvalorare la tesi della morte provocata dalla assunzione di sostanze stupefacenti. In definitiva, solo per l’azione decisa e ferma della famiglia Magherini, che da subito ha rivendicato il diritto ad una verità che sembrava negata dalle autorità, affiancata dall’avvocato Fabio Anselmo, e sostenuta dalla mobilitazione, cresciuta in città – e non solo – a seguito dell’emergere di elementi che raccontavano una storia totalmente diversa da quella “ufficiale”, hanno impedito che la morte di Riccardo finisse nel troppo lungo elenco di quelle dimenticate e negate.
Oltre alla Commissione per i Diritti Umani del Senato, che ha presentato un’interrogazione parlamentare per denunciare i “comportamenti illegali” dei carabinieri intervenuti quella notte, anche Amnesty International ha indirizzato una lettera aperta al Ministero dell’Interno per chiedere chiarezza sulle indagini svolte dalla Procura di Firenze.
Riccardo muore schiacciato sull’asfalto, “Aiuto, ho un figliolo, basta”. Muore quando il primo 118 arriva senza medico a bordo; muore perché la seconda ambulanza giunge dopo quindici minuti e la manovra di rianimazione è oramai inutile.

VINCENZO SAPIA (24 MAGGIO 2014)
Vincenzo Sapia è un ragazzone di 29 anni e oltre 100 chili con qualche problema di salute. Sono circa le dodici, quando decide di uscire di casa. Assume i suoi farmaci quotidiani e saluta la madre, intenta a cucinare. “Dove vai Vince’? prova la madre a fermarlo – è quasi pronto…”. “Vado a prendere un cane – risponde il ragazzo – e torno presto”.
Vincenzo si incammina verso l’ufficio postale del paese che dista poche centinaia di metri. C’è un palazzo di tre piani. Lì, Vincenzo è convinto di trovare un cagnolino. Entra nel portone, sale un piano e comincia a bussare con vemenza ad una porta. La padrona di casa non apre, i vicini hanno paura e telefonano ai carabinieri. Vincenzo riscende. Attende nello spiazzo antistante l’ufficio postale e, intanto, arrivano le forze dell’ordine. Il maresciallo si è insediato da poco tempo e non sa ancora chi è Vincenzo, ma gli altri carabinieri lo conoscono bene. Inizia un dialogo tra i militari e Vincenzo, molto probabilmente per l’insistenza da parte dei carabinieri nella richiesta dei documenti, si innervosisce. Diversi testimoni raccontato che Vincenzo si denuda, rimanendo in mutande. I carabinieri allora decidono di intervenire per bloccare il ragazzo e in tre si adoperarono per immobilizzarlo. Poi, un vuoto nella ricostruzione, ma un esito certo, un finale tragico: Vincenzo giace a terra morto. Sopraggiungono amici e parenti, tutti a chiedersi cosa sia successo, come sia morto il ragazzo. La madre chiede che il corpo, ormai senza vita, venga coperto con un lenzuolo. Tutti attendono risposte che, però, non arrivano. L’area viene transennata, si parla di un infarto, ma sono in molti a non accettare questa spiegazione. Arriva l’ambulanza e la polizia scientifica per i rilievi fotografici, mentre i carabinieri si allontanano e gli animi cominciano ad esasperarsi. Sono attimi concitati: il padre alza la voce, gli amici chiedono giustizia. Il corpo di Vincenzo rimane più di tre ore sull’asfalto rovente prima di essere caricato su un’ambulanza in direzione dell’obitorio. La procura di Castrovillari, decide di indagare i tre carabinieri intervenuti per omicidio colposo: un atto dovuto. L’indagine è complicata, anche per il silenzio piombato intorno alla vicenda. Indiscrezioni giornalistiche, qualche mese più tardi, parlano dell’assenza di segni di violenza. Un semplice infarto e il caso, almeno per l’opinione pubblica, è chiuso. Ma ci sono troppe domande senza una risposta. La famiglia attende di sapere come è possibile che un ragazzo che non aveva mai avuto alcun problema cardiaco sia potuto morire d’infarto all’improvviso, quali siano stati i metodi di contenimento delle forze dell’ordine, perché nessuno dei testimoni abbia mai voluto parlare con i giornalisti, cosa abbiano ripreso le telecamere di sicurezza del vicino ufficio postale.

DAVIDE BIFOLCO (5 SETTEMBRE 2014)
La triste storia di Davide si svolge nel quartiere Traiano a Napoli nella notte tra il 4 e il 5 settembre 2014.
Sono le 2.30 di quella notte e Davide è fuori in motorino con due suoi amici. Il motorino incrocia una gazzella dei carabinieri. Gli agenti avrebbero riconosciuto in uno dei tre ragazzi un latitante. Intimano l’alt, ma il motorino non si ferma e comincia inseguimento, il motorino cade e i tre ragazzi si ritrovano sull’asfalto, uno dei carabinieri scende dalla macchina pistola alla mano, accidentalmente parte un colpo che raggiunge Davide in pieno cuore, lo caricano sull’autoambulanza ma arriva morto all’ospedale.
Questa almeno è la versione di carabinieri e organi di stampa, le cose sarebbero andate ben diversamente e già nei giorni successivi al fatto la versione dell’agente viene smontata pezzo per pezzo.
A quanto i testimoni quella notte non ci sarebbe stato nessun posto di blocco e uno dei carabinieri, proprio quello che ha sparato, aveva finito il turno a mezzanotte.
La domanda è cosa ci facesse due ore e mezza dopo ancora sulla gazzella e con il colpo in canna.
Sul motorino non c’era nessun latitante. Equabile (il pregiudicato che dicono i carabinieri di stare seguendo) in un intervista pubblica, nega che quella notte si trovasse alla guida del mezzo.
Il motorino sarebbe stato speronato dalla gazzella e i ragazzi avrebbero fatto un volo di alcune decine di metri, a quel punto due scappano impauriti, Davide mentre cerca di rialzarsi da terra viene raggiunto da un colpo di arma da fuoco.
La madre accorsa pochi istanti dopo afferma che per suo figlio ormai non c’era più niente da fare e non capisce per quale motivo sia stato fatto portare via dall’autoambulanza impossibilitando i rilievi.
I lati oscuri di questa vicenda sono tanti:
– la scena del delitto viene inquinata da subito in quanto macchine e motorino vengono spostati
– sul posto arriva un’autoambulanza che sta ferma quasi cinquanta minuti
– il referto dice che Davide è porto durante il trasporto all’ospedale
– e perché l’autoambulanza non parte subito viste le condizioni gravissime del ragazzo
– alcuni testimoni dicono che è proprio il carabiniere che ha sparato a dire agli operatori dell’autoambulanza “Alzatelo che sennò mi rovinate”
A difesa del carabiniere si sono subito schierati i mass media facendo cattiva infor mazione con lo scopo di giustificare quello sparo, avvalorando la tesi del posto di blocco, del colpo accidentale, compreso elevare l’età di Davide a 17 anni e abbassare quella del carabiniere da 32 a 22.
Troppi lati oscuri in questa vicenda, l’unica cosa certa è che un ragazzo è morto a soli 16 anni senza un perché.
Aggiornamenti processuali
Fissata per il 16 ottobre 2018 la prima udienza del processo di appello sulla morte di Davide Bifolco
Il processo di primo grado si è concluso nell’aprile 2016, smentendo tanti elementi emersi in una prima fase e diffusi in maniera incontrollata dalla stampa, primo fra tutti la presenza di un latitante a bordo del motorino su cui viaggiava Davide, la possibilità che il mezzo avesse forzato un posto di blocco, quella che i tre ragazzi avessero con loro un’arma. Il processo si è concluso con una sentenza di condanna condizionata dalla scelta del rito abbreviato da parte dell’imputato e dalla mancanza di una perizia balistica affidabile.
Il rito abbreviato, oltre a concedere uno sconto di un terzo della pena all’imputato, fa si che la decisione si fondi sulla base dei soli atti delle indagini preliminari, indagine che sono state svolte in questo caso dallo stesso corpo militare a cui appartiene l’imputato, l’agente Macchiarolo, per molti aspetti superficiali e incomplete.
La consulenza balistica risultata decisiva alla condanna per omicidio colposo (e non volontario) è stata considerata poco affidabile dallo stesso magistrato giudicante, accettando un’integrazione probatoria delle parti civili; perizia balistica poco attendibile che non sgombra il campo dai dubbi rispetto alla credibilità della versione dell’imputato (che afferma di aver fatto partire accidentalmente il colpo dopo essere inciampato) per due motivi: la sparizione del bossolo del proiettile che ha ammazzato Davide e il fatto che il corpo senza vista del ragazzo sia stato caricato sull’autoambulanza prima che venissero effettuati i rilievi di rito.
Il giudice pur avendo lasciato intravedere alcune perplessità rispetto alla ricostruzione dei carabinieri, ha ritenuto che la stessa fosse più attendibile delle altre (uno dei ragazzi che era sul motorino con Davide contraddiceva l’agente Macchiarolo rispetto all’inciampo) e tutte le questioni sollevate dalla parte civile (discrepanze nelle testimonianze degli agenti, ricostruzione alternativa basata sulle posizioni delle ricetrasmittenti in dotazione ai militari ecc) non sono servite a mettere in discussione il capo di imputazione, formulato sulla base della versione dell’imputato.
Il processo di primo grado si è concluso con una condanna a quattro anni e quattro mesi che non ha soddisfatto nessuno: le parti civili che contestano l’imputazione per omicidio colposo e la difesa che ritiene la pena troppo severa.
Sentenza impugnata da tutti fatta eccezione per la procura.
“E’ un momento delicato nella vicenda processuale che riguarda la morte di mio figlio (spiega Giovanni il papà di Davide) per questo chiediamo a tutte le persone che in questi anni hanno capito che stiamo parlando della morte di un ragazzo innocente, ammazzato da un carabiniere senza alcun motivo, di esserci vicini per chiedere giustizia per la sua morte”
Oggi Davide avrebbe avuto 21 anni.

MASSIMILIANO MALZONE (8 GIUGNO 2015)
39 anni, muore durante un Trattamento sanitario obbligatorio. Il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno. “Con maggiore sensibilità nostro fratello non sarebbe morto” ci tengono a specificare, ricordando quanto successo proprio la mattina del 28 maggio, quando polizia locale e dottori si recano a casa di Massimiliano. “L’hanno praticamente sequestrato, bloccandogli l’uscita di casa”, precisa il fratello, “tanto da scatenare la sua reazione”. Massimiliano, infatti, con una mazza di ferro si scagliò contro l’auto della polizia locale. “Ma non ha tentato di investire nessun dottore” aggiunge ancora la sorella, diversamente da quanto scritto sugli organi di stampa. Il ragazzo, in passato, aveva subito altri due Trattamenti sanitari obbligatori, nel 2010 e nel 2013. «Durante il suo penultimo ricovero mio fratello chiamava due, ma, anche tre volte al giorno. Quest’ultima volta no. I medici, quando chiamavo in reparto, racconta Adele, sorella di Massimiliano, mi dicevano che mio fratello stava benino, ma che aveva un atteggiamento aggressivo». Questa, secondo la signora Adele, è stata la motivazione utilizzata dai sanitari per vietare ai familiari di entrare in reparto. «Io ho chiamato sempre in ospedale per sapere come stava Massimiliano». Massimiliano, durante il suo ultimo ricovero, ha contattato la famiglia una sola volta. Poche ore prima del decesso. Lo ha fatto, intorno alle 12.45 di lunedì 8 giugno, utilizzando un cellulare che gli avrebbe prestato forse una paziente. Il ragazzo voleva contattare un legale. «Deve dargli il numero dell’avvocato, vogliono farci passare per pazzi qua dentro», avrebbe detto la compagna di stanza di Massimiliano alla sorella del ragazzo. Adele ricorda che la telefonata fu interrotta bruscamente. Alle 17, secondo quanto affermato dai medici in reparto, il ragazzo stava bene. Dopo meno di 3 ore la notizia del decesso. «Com’è possibile? – si chiede Adele — Com’è successo?». Massimiliano, secondo i medici, sarebbe morto per arresto cardiaco dopo che era stato accompagnato in bagno in quanto presentava difficoltà di deambulazione. Il primario assicura che l’uomo “era tranquillo e negli ultimi 4-5 giorni aveva anche quasi eliminato l’uso di farmaci; i parametri sia con l’elettrocardiogramma che per quanto concerne la pressione arteriosa erano risultati nella norma. Mangiava anche in maniera normale: l’altra sera gli fu ordinata anche una pizza visto che non gradiva il cibo somministrato dall’ospedale. L’attenzione era massima – conclude – la sua stanza era di fronte a quella degli infermieri. Nulla quindi è stato lasciato al caso o all’improvvisazione”. La procura di Lagonegro ha avviato un’indagine per accertare le cause del decesso. La storia di Massimiliano richiama alla memoria quella di Francesco Mastrogiovanni, maestro di Castelnuovo Cilento deceduto nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Il medico che avvisa Adele della morte del fratello è lo stesso già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica.

MAURO GUERRA (29 LUGLIO 2015)
Mauro Guerra, 33 anni, è morto a causa di un colpo di pistola sparato da un carabiniere il pomeriggio del 29 luglio in un campo di sterpaglie poco distante da casa sua a Carmignano di Sant’Urbano nel padovano: Mauro era scalzo e in mutande quando gli hanno sparato.Gli organi di stampa nelle ore successive al fatto hanno dato una serie di versioni molto diverse tra loro in merito all’accaduto. Secondo la prima versione (subito smentita dalla famiglia) i carabinieri sarebbero stati chiamati dalla famiglia del ragazzo il quale durante una lite avrebbe dato in escandescenza, da qui l’intervento dei militari per sottoporre Mauro ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio e Mauro che avrebbe tentato la fuga per sottrarsi al trattamento, ne sarebbe quindi nato un inseguimento e una colluttazione con uno dei carabinieri. Sempre secondo la versione dell’Arma il militare sarebbe stato colpito più volte dal ragazzo con un corpo contundente rimanendo ferito e riportando la frattura della teca cranica, della mandibola e di sei costole. A quel punto sarebbe arrivato il collega che vedendo il militare a terra sanguinante avrebbe estratto la pistola e sparato prima due colpi in aria e poi un terzo all’indirizzo di Mauro che è deceduto sul posto pochi istanti dopo essere stato colpito al fianco. Col passare delle ore questa versione ha subìto parecchi mutamenti e la stampa (in particolare Il Mattino di Padova) ha iniziato anche a screditare la vittima descrivendola come una persona disturbata e violenta asserendo inoltre: 1) che qualche giorno prima della morte Mauro si era recato presso la caserma dei carabinieri a consegnare un manoscritto delirante in cui parlava di Dio e del diavolo, di Ezechiele e del destino del mondo; 2) che qualche giorno prima della morte di Mauro i carabinieri avevano ricevuto la segnalazione di una famiglia che avrebbe visto Mauro nascosto dietro un cespuglio; 3) un compagno di palestra avrebbe ricevuto da Mauro una sberla senza motivo sempre qualche giorno prima della morte; 4) che quella mattina all’arrivo dei militari Mauro aveva occhi spiritati e parlava in modo incomprensibile; 5) che una volta ferito dal colpo di pistola avrebbe continuato con ferocia la sua azione interrotta solo dall’intervento di altri quattro carabinieri. Anche in merito alle lesioni riportate dal carabiniere c’è poca chiarezza visto che quelle sopracitate vengono poi ridimensionate in sospetta lesione cranica, frattura della mascella e una costola incrinata e il carabiniere che veniva dato in fin di vita è stato poi dimesso poche ore dopo l’accaduto. I familiari, con una telefonata al numero verde di Acad, hanno riferito una storia diversa: «Abbiamo la testimonianza di diverse persone che erano lì – racconta una parente – i carabinieri hanno la loro versione ma noi abbiamo i testimoni. Mauro era stato bloccato, già gli era stata infilata una delle manette ma il carabiniere lo ha aggredito e lui ha reagito. Non so cosa gli abbia detto ma è vero che Mauro lo ha colpito, due-tre pugni, non so. Così si è divincolato, si è girato ed è andato via quasi camminando, camminava, ma gli ha sparato alle spalle. E gli altri carabinieri, che erano a cento metri, quando sono arrivati, hanno continuato a prenderlo a calci quando già era a terra». Secondo quanto ci ha detto la famiglia Mauro era in casa con il fratello minore e il padre, non c’è stata alcuna lite in famiglia, non si capisce chi abbia allertato i carabinieri e l’ambulanza (tant’è che anche il padre di Mauro è rimasto sorpreso dall’arrivo dei militari) e il modulo per il Tso non avrebbe in calce né la firma di un medico né le firme delle Autorità del comune. Ad effettuare i rilievi sul posto gli stessi colleghi dei carabinieri coinvolti, una costante in casi del genere. La famiglia ad oggi non sa se nemmeno se il pm si sia mai recato sul luogo. «Nemmeno un cane si ammazza in questa maniera. Lo avete ucciso voi, vergognatevi!» Il carabiniere che ha sparato è stato iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo e trasferito alla Legione Veneto. Circa una settimana dopo i fatti abbiamo appreso dalla stampa locale che altri due carabinieri sarebbero ricorsi alle cure mediche e si sarebbero fatti refertare una distorsione al polso e una frattura del metacarpo che avrebbero riportato durante la colluttazione con il giovane che, già ferito e morente, secondo loro continuava a picchiare con forza.

ANDREA SOLDI (5 AGOSTO 2015)
Andrea Soldi, 45 anni, soffriva di schizofrenia ed è morto il 5 agosto 2015 durante un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Il fatto è successo a Torino, Andrea se ne stava seduto su una panchina in piazza Umbria, non distante dal centro cittadino: non soffriva di cuore, non aveva patologie cardiache pregresse. È morto a causa di un’ipossia, una carenza di ossigeno, prodotta dalla compressione del collo. A confermarlo è il risultato degli esami istologici svolti dal medico legale Valter Declame sui tessuti della vittima, esami che sono stati effettuati per ordine della Procura di Torino. La sua morte, secondo la procura, è dovuta alle manovre messe in atto dai vigili per immobilizzarlo e caricarlo sull’ambulanza e alla mancanza di soccorsi quando la situazione si è aggravata. Gli esami sul corpo hanno anche rilevato un «danno cardiaco secondario», determinato dalla carenza di ossigeno. Gli amici di Andrea Soldi accusano: “Era tranquillo, non faceva niente di male a nessuno, stava qua al bar, o seduto sulla sua panchina, a volte chiedeva una sigaretta. Era una presenza amica. Sono venuti con una macchina nera sono scesi e si sono avvicinati alla panchina su cui era seduto Andrea. Un agente gli è andato dietro, l’ha afferrato per il collo, finché Andrea è diventato nero in volto. La lingua gli usciva dalla bocca. Poi l’hanno buttato giù, faccia a terra, vicino alla panchina. Lo hanno ammanettato dietro la schiena, come se dovessero portarlo in galera. È arrivata l’ambulanza, che era ferma qui davanti, e l’hanno caricato. Ma lui non si muoveva”.«È stato un intervento un po’ invasivo… lo hanno fatto un po’ soffocare». A parlare è l’autista dell’ambulanza che ha trasportato Andrea all’ospedale Maria Vittoria, un testimone importante perché ha visto tutto ed ha provato a reagire, suo malgrado, invano. Dopo che Andrea è stato fermato e ammanettato, l’uomo ha chiamato la centrale per riferire ciò che aveva visto e la sua preoccupazione. Quando ha telefonato, era agitato per due motivi: primo perché aveva appena assistito ad un intervento da parte degli agenti non del tutto ordinario, piuttosto “violento” e secondo perché sarebbe stato costretto a fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare e che non rientrava nel protocollo di soccorso: caricare in ambulanza in posizione prona e ammanettato un paziente in crisi respiratoria. Esiste un protocollo che dal 2008 fornisce alla polizia municipale le indicazioni da seguire in caso di “accompagnamento coattivo in ospedale”. I vigili devono “cercare di essere accondiscendenti e concilianti evitando di parlare ad alta voce e di usare modi bruschi” tentando “per quanto possibile” di instaurare “un buon dialogo con il soggetto”. La forza si deve usare solo come ultima risorsa, in caso di manifesta pericolosità e per il tempo necessario a somministrare un sedativo. I carabinieri dei Nas sostengono che quel giorno Andrea non avrebbe dovuto essere trattenuto con la forza perché non era stato aggressivo né con altri né con se stesso. Come mai alla presenza di un agente d’esperienza – uno dei tre era formatore regionale – e di uno psichiatra di lungo corso la situazione è così degenerata? Perché tale violenza, visto che l’unica forza esercitata da Andrea era quella di non staccarsi dalla panchina? E perché nessuno lo ha rianimato? Per la morte di Andrea sono stati iscritti sul registro degli indagati, con l’accusa di omicidio colposo, lo psichiatra e i tre vigili urbani che hanno effettuato il trattamento sanitario obbligatorio. Il processo di primo grado si è concluso con la condanna ad un anno e otto mesi per i tre vigili urbani e lo psichiatra.

CIRO LO MUSCIO (29 DICEMBRE 2015)
Ciro Lo Muscio, 39 anni, viene investito e ucciso il 29 dicembre 2015 da un auto civetta della polizia lanciata a forte velocità in Corso Grosseto a Torino. Ciro era appena sceso dall’autobus 2 che viaggiava in direzione Don Bosco. Cinquanta metri prima dell’incrocio con via Ala di Stura scende alla fermata ed attraversa la strada. Molti testimoni hanno visto l’accaduto e raccontano di una velocità assurda e di un impatto violentissimo. La volante era in servizio ma non rispondeva ad alcuna chiamata di emergenza e viaggiava senza l’utilizzo della sirena e dei lampeggianti.

SEKINE TRAORE (8 GIUGNO 2016)
Sekine Traore, 27 anni del Mali, muore ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere nella tendopoli di San Ferdinando (RC) l’8 giugno 2016. Il ragazzo, lavoratore stagionale impegnato nella raccolta delle arance, arrivato in Italia a bordo di un barcone il 20 febbraio, si trovava costretto a vivere in condizioni disumane, nella fabbrica occupata di San Ferdinando, a pochi passi dalla tendopoli, dove vivono centinaia di migranti.
Nel comunicato ufficiale della Questura si parla di una lite tra migranti nella tenda adibita a bar, Sekine che impugna un coltello, l’arrivo di una prima pattuglia dei carabinieri per sedare la lite e l’esplosione di un colpo nella colluttazione. Legittima difesa quindi.
Da subito però la versione ufficiale sembra poco credibile. Diversa la versione degli amici della vittima: i migranti presenti nella tenda al momento della lite parlano infatti dell’intervento di sei carabinieri per sedare un diverbio nato per motivi banali, alcuni negano la presenza di armi, raccontano di essere stati fatti uscire dal tenda e di aver avvertito lo sparo dall’esterno.
Sekine viene portato all’ospedale di Polistena dove muore appena arrivato.
Il giorno seguente centinaia di migranti raggiungono in corteo il Comune di San Ferdinando chiedendo verità e giustizia per l’omicidio di Sekine.
Il 30 novembre 2017 si è svolta l’udienza preliminare presso il Tribunale di Palmi, imputato il carabiniere per eccesso colposo di legittima difesa.
Il giudice ha ammesso la costituzione di parte civile di ACAD riconoscendo la lesione dei propri interessi derivanti dal reato.
Quindi la difesa dell’imputato ha chiesto il rito abbreviato condizionato all’esame di tre carabinieri operanti. Procura e parte civile si sono opposte ed il giudice ha rigettato tale richiesta di rito abbreviato.
A seguito delle conclusioni delle parti il giudice ha disposto il rinvio a giudizio per il carabiniere. Nella fase dibattimentale sono state amesse ulteriori parti civili, ovvero il fratello e la sorella di Sekine e, proprio su richiesta delle parti civili, è stata autorizzata la citazione del Ministero della Difesa in qualità di responsabile civile. La prossima udienza è prevista per il 12.02.2021.

ANTONIO DELLO RUSSO (15 GENNAIO 2019)
Antonio Dello Russo, quarantenne di Mercogliano (provincia di Avellino), muore dopo un inseguimento con i Carabinieri la notte tra il 14 e il 15 gennaio 2019 sulla statale 7 bis che collega Mugnano del Cardinale ad Avella.
L’uomo non si sarebbe fermato ad un posto di blocco e da lì sarebbe scattato l’inseguimento durante il quale i Carabinieri avrebbero esploso diversi colpi di pistola raggiungendo Antonio Dello Russo in più punti del corpo. Il giovane a quel punto avrebbe perso il controllo dell’auto schiantandosi contro un albero.
Le circostanze del caso appaiono fin dal principio poco chiare: la famiglia del giovane sarebbe stata avvisata solo alle 9.30 del mattino successivo, ” incidente stradale” la prima notizia ufficiale. Ed inoltre: l’auto spostata ed il corpo spostato prima dell’arrivo dei tecnici per i rilievi.
La Procura di Avellino, che ha affidato le indagini alla Polizia, ha iscritto entrambi i Carabinieri nel registro degli indagati con l’ipotesi di omicidio colposo e disposto una prima autopsia sul corpo dell’uomo da cui sarebbe già emerso che senza dubbio due colpi lo avrebbero raggiunto: uno alla coscia destra l’altro al braccio destro.
La famiglia di Antonio, assistita dall’ Avvocato Fabio Tulimiero, vuole vederci chiaro. Il fratello Giliberto ha infatti  depositato una denuncia indipendente chiedendo si faccia chiarezza sulla causa della morte di Antonio nonché sulla vera dinamica di quella  notte, sulle responsabilità dei Carabinieri coinvolti e sulle condotte immediatamente successive tenute anche dagli altri militari intervenuti. Sono attualmente in corso la perizia balistica e quella cinematica a cui stanno prendendo parte i periti di nominati dalla famiglia, il deposito dei risultati è previsto per fine giugno.

ARAFET ARFAOUI (17 GENNAIO 2019)
Arafet Arfaoui muore nel pomeriggio del 17 gennaio 2019 durante un controllo di polizia in un money transfer di Empoli.
Muore nelle mani delle forze dell’ordine, con le manette ai polsi e i piedi legati da una corda fornita dal proprietario del negozio.
Gli agenti intervenuti quella sera descrivono Arafet come violento e non collaborativo. Denunciano che per farsi consegnare i documenti ci vogliono 20 minuti; fatto, però, smentito dalle telecamere presenti, in quanto dalle immagini si evince non solo che Arafet non era violento, ma che dopo poco cede il suo portafoglio.
Muore nelle mani di cinque agenti, due intervenuti subito, tre sopraggiunti successivamente sul posto, che si alternano, in tre a turno, per contenere Arafet a terra, legato.
Il ragazzo, di origine tunisina e cittadino italiano, cercava di spedire dei soldi dal negozio Taj Mahal, nel centro cittadino quando una banconota da 20 euro, viene ritenuta falsa dal gestore, che avvisa la polizia.
Arafet rimane allibito e si agita, sostiene di aver subìto lui per primo una truffa su quella banconota, infatti è il primo ad invocare la chiamata delle forze dell’ordine per accertamenti al negozio.
Arafet, fino a poco tempo prima lavorava a Livorno. Aveva appena preso una parte dell’indennità di disoccupazione e voleva spedire dei soldi ai parenti in Tunisia, generoso e premuroso come sempre.
Muore così Arafet, dopo una colluttazione nel bagno del locale privo di telecamere, ma comprovata dai 23 segni di ecchimosi ed escoriazioni rilevate sul suo corpo.
Nel referto autoptico disposto dalla procura si parlerà di arresto cardiaco verificatosi dopo un’intossicazione acuta da cocaina, assunta circa un’ora prima della morte. Una motivazione che scagiona così sia i poliziotti (visto che dalle prime indagini si è escluso l’uso eccessivo della forza da parte degli agenti intervenuti) sia i sanitari del 118 che nulla avrebbero potuto fare per salvarlo.
Ma nel referto di parte prodotto dai medici legali della moglie e di Acad la verità pare essere un’altra: Arafet muore dopo 15 minuti di contenimento in posizione prona mentre i poliziotti continuano a tenerlo a terra nonostante avesse smesso ormai di muoversi, parlare e lamentarsi.
Muore tra gemiti di sofferenza registrati durante la telefonata fatta al 118 in quei tragici momenti.
Muore con un consistente edema polmonare, tale da rendere un polmone grande il doppio dell’altro e con gli operatori del 118 che non sono intervenuti sul corpo dopo ben 5 minuti dal loro arrivo.
Nonostante la richiesta di archiviazione, la moglie Azzurra non si è mai arresa, presentando richiesta di opposizione tramite l’avvocato Conticelli di Firenze che fa parte di Acad da tanti anni ed ha seguito il caso fin dall’inizio.
Il GIP di Firenze, ad un anno dalla morte di Arafet, ha ordinato di proseguire le indagini iscrivendo sul registro degli indagati cinque poliziotti, un medico e un’infermiera che parteciparono al fermo di Arfaoui. Tutti per omicidio colposo. Un supplemento di indagini che ha portato lo stesso GIP a nominare il dottor Sabino Pelosi di Modena come perito atto a supervisionare l’incidente probatorio per ricostruire le cause di morte di Arafet. Una nomina da noi, e dal legale della famiglia di Arafet, fortemente contestata visto il suo passato (fu consulente di parte dei carabinieri accusati della morte di Riccardo Magherini poi assolti in Cassazione)
La prossima udienza è fissata per il 26 febbraio alle ore 11 presso il tribunale di Firenze.

UGO RUSSO (1 MARZO 2020)
Nella notte tra il 29 febbraio ed il 1° marzo 2020, un adolescente di Napoli, Ugo Russo, viene ucciso a soli 15 anni da alcuni colpi di pistola sparati da un carabiniere fuori servizio, durante un tentativo di rapina di un orologio con un’arma giocattolo. Con quegli spari, anche da distanza ravvicinata, ad Ugo a soli 15 anni è stata applicata la pena di morte senza appello. Secondo le ricostruzioni fornite dai carabinieri, il militare ha sparato dopo essersi qualificato, dopo aver visto la pistola puntata alla sua testa.
Diversa risulta invece la versione di alcuni testimoni oculari che sostengono che il militare abbia sparato senza qualificarsi, fingendo di dargli l’orologio.
La famiglia a quasi un anno dall’esame autoptico, di cui ancora non si conoscono i risultati, chiede ancora di sapere cosa sia successo quella notte.
Dopo tutto questo tempo, infatti, non è ancora arrivato il risultato ufficiale dell’autopsia, nonostante il termine fosse di 90 giorni; eppure quel risultato chiarirebbe una volta e per tutte la dinamica di quella notte.
Proprio l’autopsia infatti, risulta fondamentale per capire se sia trattato di legittima difesa o se il carabiniere si sia spinto oltre. Secondo le testimonianze raccolte, i colpi di pistola avrebbero raggiunto Ugo alla parte alta del petto, l’ultimo, gli avrebbe trapassato il casco colpendolo alla nuca nella regione occipitale mentre il ragazzo, già ferito, era di spalle.
Il carabiniere è indagato per omicidio volontario.
Nei giorni successivi alla morte del ragazzino, come troppo spesso accade, i mass media si affrettano ad emettere giudizi inappellabili, schierandosi a difesa del carabiniere con il tentativo di giustificare quegli spari, nonostante l’agente fosse fuori servizio.
Di certo sappiamo solo che in questa vicenda ancora troppi lati oscuri devono essere ancora chiariti.