Nell’anniversario della morte di Stefano Cucchi, ricordiamo i casi di cittadini morti durante un’azione delle forze dell’ordine o sotto la loro custodia.
In questi giorni l’attenzione è di nuovo puntata sugli abusi delle forze dell’ordine grazie a un caso emblematico, il caso Cucchi, al film che ne è stato tratto e alla svolta processuale data dalla confessione del carabiniere Tedesco, che ha indicato i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro come gli autori del pestaggio. Una svolta che Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi—ma anche delle famiglie Aldrovandi, Uva, Magherini—ha definito “eclatante”, perché offre una “testimonianza diretta di chi ha assistito ai fatti,” ma non solo: “riferisce anche dei condizionamenti e delle intimidazioni subite, e di tutto quello che è successo dopo.”
Gli abusi in divisa, in realtà, sono un argomento che torna ciclicamente nella sfera mediatica, spinto da un nuovo caso o dalla pubblicazione di un rapporto sul numero di suicidi e morti sospette nelle carceri. Ciò che manca sempre è la volontà, soprattutto istituzionale, di costruire una riflessione più ampia, che non solo unisca tra loro i vari casi, ma li riconosca come il frutto di politiche sbagliate e di una mentalità comune costruita ad hoc, basata in primo luogo sulla criminalizzazione.
“La criminalizzazione della vittima è una costante nei casi di malapolizia,” spiega Checchino Antonini, giornalista e attivista di ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa). “Di questi casi si tende a parlare in termini emotivi, della pena che si prova per l’una o per l’altra parte. Si parla di onore o disonore dell’Arma, e non si indaga, per esempio, il legame con il proibizionismo o con il razzismo. Non si mette in discussione il tipo di addestramento ricevuto e non si parla del fatto che da tempo è in atto una forte criminalizzazione dei conflitti sociali. L’ossessione per il decoro e un’emergenza sicurezza che è tutto meno che un’emergenza (visto che i reati sono in continuo calo) portano a una vera e propria repressione di alcuni stili di vita.” Il migrante, il tossico, l’attivista dei centri sociali, il senzatetto, lo spacciatore diventano tutte categorie percepite come zavorre sociali (della serie “mi dispiace che sia morto MA”). Leggi tutto
Abusi di Stato: verità insabbiate, impunità garantita
VENERDI’ 15 DICEMBRE
@Spazio Autogestito Grizzly Fano
via della Colonna 130, Fano (PU), zona campo d’aviazione
ORE 21:15
ABUSI DI STATO: VERITA’ INSABBIATE, IMPUNITA’ GARANTITA
Interverranno:
– Maddalena Benanchi (ACAD Associazione Contro gli Abusi in Divisa – Onlus)
-Diego Piccinelli ( Ultras Brescia 1911 EX-Curva Nord)
-Rudra Bianzino
In questo paese c’è una costante che si ripete negli anni e sembra inarrestabile: è l’abuso in divisa.
Ultima (in ordine cronologico)la vicenda di Luca Fanesi, ultras della Sambenedettese che lotta fra la vita e la morte, entrato in coma a Vicenza in una situazione ancora tutta da chiarire; di certo c’è che sia stato picchiato alla testa mentre scappava da una carica del reparto mobile intervenuto per sedare un momento di tensione fra le opposte tifoserie.
Da questo ultimo fatto accaduto il 5 novembre scorso ci siam interrogati e abbiamo sentito l’urgenza e la necessità di aprire un momento di confronto aperto in cui poter interagire con soggetti diversi.
Saremmo potuti partire da noi, dal fatto che chi fa delle scelte di vita ritenute sopra le righe in questo sistema diventa già di per sé un possibile bersaglio: per essere chiari, per chi è un attivista, un ultras o un soggetto ritenuto non governabile e non obbediente è più facile comprendere quella che spesso abbiamo definito “repressione” perchè è una costante che si vive sulla propria pelle, ma crediamo che il discorso investa le libertà di tanti e tante e non solo di alcune “categorie”.
Quello che ci preme discutere è il fatto che la violenza di certi reparti (celere,secondini e troppi altri ce ne sarebbero…) sono parte del sistema che gestisce l’ordine pubblico in questo paese; tale ordine è costantemente garantito con l’utilizzo della forza che sempre più spesso diventa libero arbitrio e abuso di potere.
Vogliamo ricordare un caso eclatante del settembre scorso, successo a Firenze, in cui due studentesse americane hanno denunciato di essere state stuprate da due carabinieri in servizio, i quali continuano a difendersi non negando il fatto,ma giustificando l’accaduto accusando le ragazze di essere state ubriache e al contempo, a loro dire, consenzienti.
L’ impunità che viene costantemente garantita alle FdO, il disarmante rituale in cui lo stato si auto-assolve con l’insabbiamento dei fatti e con processi-farsa in cui sempre più spesso la vittima diventa un soggetto che “se l’è cercata”, è ormai diventata una regola.
Viviamo in paese in cui si è impiegato anni per far votare al parlamento una legge sul “reato di tortura” che è stata completamente stravolta e annacquata tanto da essere una legge talmente vaga ed opinabile da aver scatenato durissime reazioni da parte di associazioni che si occupano da sempre della difesa dei diritti umani come “Amnesty International” che si è espressa a riguardo dicendo che
“Quella approvata dal Parlamento, che introduce con quasi 30 anni di ritardo il reato specifico di tortura nel codice penale ordinario, non è una buona legge. É carente sotto il profilo della prescrizione. Se la definizione accolta non può soddisfare, l’ipotesi di rinviare per l’ennesima volta, nella vaga speranza che un nuovo parlamento sapesse fare ciò che nessuno dei precedenti aveva fatto, sarebbe servita solo a chi – e sono ancora in molti – il reato di tortura non lo ha mai voluto, senza se e senza ma e in qualsiasi modo definito, considerandolo contrario agli interessi delle forze di polizia”
Il fatto che ci siano blocchi di potere che in questo paese considerino una legislazione adeguata sul reato di tortura e l’introduzione di codici identificativi per i reparti mobili, una lesione nei confronti delle Fdo è indicativo del contesto culturale in cui viviamo .
L’idea di dover costantemente vivere in un clima di paura in cui la sicurezza (che fa rima sempre più con militarizzazione) è diventata un ossessione che lascia libero arbitrio a operazioni repressive su larga scala e nei confronti di buona parte di cittadini è inaccettabile.
Ci sembra una tematica su cui fra soggetti diversi e con esperienze diverse valga la pena discutere, perchè crediamo che non si possa più morire di carcere(spesso per mano dei carcerieri), che non si debba finire reclusi perchè si ha una pianta d’erba in casa, che non si possa morire mentre si esce da uno stadio solo perchè si ha addosso il marchio “ultras” e che non si possa essere aggrediti perché si manifesta contro il G8 come successe nel massacro alla scuola Diaz di Genova.
Questa iniziativa nasce dalla convinzione che non debba più accadere nessun tipo di abuso giustificato dalla macchina del fango dei media che costantemente avvallano il teorema del
“quello che ti è successo te lo sei andato a cercare”.
Contro ogni abuso,
Verità e giustizia per tutte le vittime!
ALL LIVES MATTER!
10 anni dall’omicidio di Aldo Bianzino
Nessuno dimentica Aldo Bianzino, ucciso il 14 ottobre di dieci anni fa nel carcere di Cappanne a Perugia.
Nessuno dimentica le sofferenze della famiglia, di come sua moglie Roberta abbia lottato fino alle ultime forze per ottenere la verità e di come oggi, suo figlio, Rudra Bianzino non abbia ancora smesso di farlo.
E noi, non smetteremo mai di urlarle, di diffondere, di scrivere, di divulgare, di ricordare, di comunicare, di appendere per le strade che… sappiamo chi è STATO.
Milano, Firenze, Alessandria, Roma, il nostro ricordo per Aldo.