Ecco chi è il Dino dei manifesti. E’ una vittima di malapolizia
Nella notte un secondo manifesto sui muri di Roma. Si tratta di una campagna di Acad a ridosso dell’appello per l’omicidio di Dino Budroni. Sua sorella Claudia e Fabio Anselmo alla Camera
di Checchino Antonini da popoffquotidiano.it
«Dino è morto con le mani alzate dopo lo sparo di un poliziotto», «Con un colpo al cuore», «Dino era disarmato», «Freddato con un colpo al cuore». Nella notte sono spuntati altri manifesti sui muri di Roma e hanno chiarito il piccolo mistero che la prima ondata di manifesti «Lo sai cos’è successo a Dino?» aveva sollevato in città e sul web. Si tratta di una campagna di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, a ridosso dell’apertura, il prossimo 4 aprile, del processo d’appello per l’omicidio di Dino Budroni. Oggi sua sorella Claudia e il suo legale Fabio Anselmo, sono alla Camera dei deputati per una conferenza assieme ad Acad e al parlamentare Daniele Farina della commissione Giustizia.
Aveva fretta il giudice romano che, nel luglio 2014, ha assolto il poliziotto che ha sparato a Dino Budroni, doveva cambiare incarico, aveva fretta – probabilmente – di togliersi quel fardello di processo rognoso: un omicidio commesso da una persona con la divisa ai danni di un cittadino senza divisa che, perdipiù, aveva commesso quella notte un bel po’ di reati. Ma quando gli spararono, probabilmente era fermo.
Tre anni prima, il 30 dello stesso mese, Budroni era stato ucciso sul Raccordo anulare. La lettura della sentenza è stata un lampo tagliente per chi era lì ad attendere la sentenza. Un’ora e mezza di camera di consiglio e quella parola, «assolve», prima che il giudice sparisse nei meandri della città giudiziaria. Novanta giorni dopo le motivazioni, undici pagine, sembrano una memoria dei difensori dell’agente, un ragazzo di trent’anni che nemmeno doveva trovarsi lì, quella notte, al posto accanto al guidatore. L’autista della Volante 10 doveva essere lui e non avrebbe sparato. Lui dice che avrebbe sparato perché la macchina di Budroni, che inseguiva da una ventina di chilometri, gli sarebbe potuta sgusciare ancora con una manovra repentina. A un suo collega è parso di sentire lo sparo nella fase del rallentamento, «ad una velocità diminuita ma ancora ragguardevole, forse di circa cento all’ora». Ma un carabiniere ha dichiarato, ed è agli atti, che appena sentito i colpi «ci siamo fermati… girandomi ho visto il Budroni che era seduto». Il nodo è questo, uno dei nodi, almeno. Budroni era in corsa oppure era incastrato? «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Fino a fermarsi.
Le sentenze si rispettano, così si usa dire. Ma chi ha letto queste parole del conducente della gazzella dei carabinieri e le carte del pm non riesce a farsi una ragione delle motivazioni dato che ha stampata in mente la posizione di tre vetture (una dei carabinieri di traverso, una della polizia a sinistra – la volante 10 – e l’altra dietro la Focus di Dino Budroni ormai incastrata e di traverso, a pochi millimetri dal guardrail di destra e a pochi centimetri da quella davanti, dei CC). Ad esempio quando si legge: «In ragione del tenore della ricostruzione dell’episodio fornita dai predetti CC risulta inoltre incontrovertibile che il Budroni, dopo essere stato colpito, è riuscito ad arrestare la sua Focus, inserendo addirittura e verosimilmente la prima marcia e il freno a mano, e ad alzare le mani, in seguito all’intimazione rivoltagli dal CC Giudici, prima di accasciarsi sul sedile di destra». Chi ha assolto il poliziotto ritiene che l’imputato abbia davvero inteso colpire la ruota posteriore sinistra della Focus e che si sia deciso a sparare solo alla fine di un lungo inseguimento «una volta resosi conto del folle comportamento del predetto». Ma come? Il carabiniere sembra preciso quando dice che «ci siamo fermati, direi quasi contemporaneamente all’arresto dei veicoli ho sentito due colpi di pistola… mi ponevo proprio davanti la vettura di Budroni. Vedevo il Budroni immobile e mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo però lo stesso si è accasciato». Era fermo, pare. Erano ormai fermi.
Chi pensa, ad esempio i familiari, che una sentenza del genere abbia ucciso una seconda volta Budroni, non riesce a capire perché quello sparo. Lo hanno detto i periti, i legali di parte civile (che sono Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, veterani dal caso Aldrovandi di processi come questo e ora alle prese con i casi Cucchi e Magherini), la pubblica accusa che ha sostenuto che l’agente ha sparato male, ha sparato due volte, ha sparato quando non era necessario, senza che glielo ordinasse nessuno.
Il pm aveva chiesto due anni e sei mesi. Pochi per Anselmo, legale dei familiari della vittima, che aveva provato a dire che non fu eccesso doloso perché non è vero che l’agente sparò in rapida successione: le macchine erano ferme e l’angolazione degli spari dimostrerebbe che non si può liquidare la morte di un uomo come eccesso in un’azione legittima. Ma il difensore del poliziotto ha sostenuto che l’auto di Budroni correva ancora quando il suo cliente ha sparato. Due film completamente diversi ma al giudice è talmente piaciuto il secondo che nelle motivazioni della sentenza non sembrano esserci tracce dell’impianto e delle ragioni della pubblica accusa. E, invece, si dilunga, nella brevità complessiva, nella descrizione di quanto accaduto venti chilometri più a sud del luogo del delitto, quando Dino era così fuori di sé da minacciare gravemente la sua ex convivente e danneggiare il suo portone.
Servirà quella descrizione per sostenere che sparare era una mossa «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Ma in tanti dicono che era ormai già fermo, che la missione era compiuta si sarebbe potuto dire con successo, senza nemmeno brandire le armi.
In casi come questi la formula magica è «uso legittimo delle armi» perché il comportamento di Budroni è «indubbiamente da qualificare come una reiterata resistenza caratterizzata da entrambi gli elementi della violenza e della minaccia perpetrata nei confronti degli agenti». Le motivazioni dicono che la posizione del corpo al momento in cui fu colpito, era quella di chi sta per sterzare a destra per fuggire. Ma era già incastrato e pressoché fermo e pare impossibile che in quella posizione potesse essere una minaccia per il traffico blando di quelle ore dell’ultima parte della notte: la macchina, sul lato del paracarri non ha un graffio, dall’altra ha i segni del contatto con le volanti. La radio di bordo ha registrato le voci degli agenti: «Vagli addosso!». Le motivazioni dicono il contrario, che «il Budroni tentava di collidere con improvvise sterzate finché non impattava con la Beta Como», l’altra auto della polizia.
Il processo d’appello vedrà di nuovo le parti scontrarsi sulla domanda cruciale: era davvero necessario sparare quella notte? E poi perché Dino ha dovuto subire un processo da morto: un decreto penale del Tribunale di Tivoli, infatti, lo ha condannato nel marzo del 2014 al pagamento di un’ammenda di 150 euro, perché in casa aveva una carabina ad aria compressa e una balestra con frecce a punta metalliche non denunciate. Che fine ha fatto l’articolo 150 del Codice Penale, secondo cui la morte del reo estingue il reato?
Presentazione associazione ACAD e Marsia onlus
Una interessante giornata di informazione quella di sabato 2 aprile a Carrara: si inizia alle ore 17 alla Biblioteca Comunale di Carrara, in piazza Gramsci, con la presentazione delle Associazioni ACAD e Marsia onlus.
ACAD (Associazione Contro gli Abusi in Divisa) è una Onlus nata dall’intenso lavoro di un gruppo di attivisti che da diversi anni si occupano di abusi commessi dalle forze dell’ordine.
Marsia onlus, invece, propone attività di sensibilizzazione sul territorio e nelle scuole, campagne d’informazione e comunicazione relative alle problematiche della detenzione e dello stato delle carceri, con l’obiettivo di sviluppare una crescente attenzione sociale sul tema dell’abolizione del carcere e dei diritti e delle garanzie del sistema penale.
Dopo la presentazione verrà proiettateo il film-documentario “87 ore”: il racconto di una storia che comincia il 31 luglio e finisce il 4 agosto 2009: gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni, sottoposto a TSO, ricoverato e poi morto all’interno dell’ospedale psichiatrico di Vallo Della Lucania in provincia di Salerno.
Dalle 20, poi, cena di sottoscrizione a sostegno delle associazioni presso il circolo Arci IL Viandante, in Dir. Strada Prov. di Fosdinovo, 1, 54033 Carrara, per prenotare telefonate al 339.8622548
Stefano è morto per tortura di stato
Aggiornamenti processo De Michiel del 16/03
Nell’udienza di ieri sono stati ascoltati tre dei poliziotti intervenuti quella notte all’interno della questura, in ausilio al personale della volante.
Sono stati sentiti inoltre l’autista e l’infermiere dell’autoambulanza intervenuta.
Si è cercato di ricostruire le dinamiche di quella notte ma le incongruenze sono state parecchie.
La prossima udienza é fissata per il 29 giugno, saranno ascoltati il poliziotto che coordinò le indagini i due dottori e l’infermiere che visitarono i due ragazzi feriti. Con loro, si concludono i teste citati dal P.m. Nella stessa udienza saranno citati e sentiti altri 5 testimoni che saranno indicati dalle parti civili.
VERITÁ E GIUSTIZIA PER TOMMASO E NICOLÒ
Italia anomala: la legge non è uguale per tutti. La tortura sì
La delegazione di Acad a Bruxelles ospite del Gue proprio nel giorno in cui la capitale belga è sconvolta da un’operazione antiterrorismo.
da Bruxelles, Checchino Antonini popoffquotidiano.it
Una missione straordinariamente difficile quella di Acad a Bruxelles, ospite del Gue per un’audizione sull’anomalia Italia: paese guida, in Europa, per i casi di tortura (tso compreso), per gli abusi di polizia e carabinieri, per la repressione della conflittualità sociale. La Corte europea dei diritti umani, proprio oggi, ha respinto la richiesta del governo italiano di composizione amichevole nel caso dei due detenuti torturati nel carcere di Asti. Nel novembre del 2015 il Governo Renzi ha proposto un risarcimento pari a 45mila euro per ciascuno dei due detenuti torturati ad Asti senza però prendere alcun impegno per risolvere la questione dell’assenza del crimine di tortura nel nostro ordinamento giuridico. La vicenda giudiziaria vide indagati quattro operatori di polizia penitenziaria, ma per nessuno venne condannato in quanto, non esistendo il reato di tortura, si procedette per reati di più lieve entità oramai prescritti. Il giudice nella sentenza scrisse che i fatti erano qualificabili come tortura ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite, ma che non potevano essere perseguiti come tali poiché in Italia non esisteva una legge che riconoscesse quel reato.
“Mio fratello nei verbali viene chiamato “energumeno”,”violento”… ecco come ci viene tolta la dignità dallo Stato” [Andrea Magherini]
Spiega l’eurodeputata Eleonora Forenza che solo l’Ucraina 13.650 ricorsi) ci batte in quanto a numero di ricorsi per casi di tortura come emerge dalla Relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello stato italiano, contro il nostro Paese sono stati presentati ben 10.100 ricorsi.
Però, mentre per la prima volta alcuni familiari di vittime prendono la parola in una sede istituzionale europea, nella periferia di Bruxelles qualcuno spara sulla polizia durante un’operazione antiterrorismo. Gli agenti dovevano perquisire un’abitazione di Forest, alle porte della capitale, nell’ambito dell’inchiesta sugli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi. Almeno un uomo ha cominciato a sparare con un kalashnikov, ferendo tre poliziotti. Poi è scappato sui tetti ed è ancora in fuga.
“Io sei anni e mezzo fa non avrei pensato di parlare al parlamento europeo della morte di mio fratello, ma pensavo di crescere e maturare con lui…” [Ilaria Cucchi]
L’operazione antiterrorismo delle forze speciali della polizia federale belga in collaborazione con la polizia francese è ancora in corso. Sempre più agenti presidiano la zona intorno alla strada dove è avvenuta la sparatoria che resta chiusa al pubblico ed è sorvolata costantemente da un elicottero. Gli abitanti dell’area sono stati invitati a restare in casa mentre due uomini sarebbero ancora in fuga sui tetti dopo lo scontro a fuoco verificatosi in seguito alla perquisizione effettuata in una casa di rue du Dries. Sulla stessa strada si trovano anche una scuola e un asilo, ma gli inquirenti garantiscono che la sicurezza dei due istituti e dei loro occupanti è garantita. «C’è ormai un’osmosi tra la centralità sicurezza pubblica e la sospensione della democrazia: questo che genera gli abusi che sentiamo raccontare oggi. Sono uno degli effetti del sovversivismo delle classi dirigenti», dice, citando Gramsci, Giovanni Russo Spena, giurista, ex deputato Prc, oggi attivo nell’Osservatorio Repressione che, insieme ai Giuristi democratici (per i quali è presente la giurista napoletana Elena Coccia) ha composto la delegazione di Acad.
“Il giudice che ha assolto i poliziotti che hanno sparato a mio fratello era lo stesso che lo ha condannato da morto” [Clauda Budroni]
La lotta al terrorismo, al pari della lotta alla criminalità, è la madre di tutte le tentazioni autoritarie come l’etat d’urgence in vigore i Francia, come la ley mordaza che sta intossicando da un anno l’aria dello stato spagnolo. Nei Paesi Baschi, anche prima della legge, la tortura è stata la normalità per i prigionieri politici. Una commissione d’inchiesta, composta soprattutto da medici forensi, ha catalogato almeno 1300 casi in 50 anni. Questo raccontano Iosi Juaristi Arduenz, deputato basco del Gue, e Miguel Urban di Podemos denunciando il peccato originale della democrazia spagnola: l’impunità per le torture e i crimini del franchismo, e quindi la continuità di quella cultura della polizia che considera le garanzie democratiche un inutile orpello che, addirittura, ostacola il lavoro degli operatori. Di questo parla anche una delle figure chiave di queste vicende, l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo, di un sistema che ha tre punti di patologia: nel carcere, nell’uso delle armi e in quello della violenza negli arresti come dimostrano le storie che lui rappresenta in tribunale: quelle di Stefano Cucchi, Dino Budroni, Davide Bifolco, Aldo Bianzino, Ricky Magherini, Rachid Hassaragh. La sua voce si alterna alla messa in onda di materiali audio e video andando a comporre un catalogo che sembra infinito.
“Io sono figlio di nessuno. Figlio di quello che mi ha fatto lo Stato” [Rudra Bianzino]
E poi ciascuna delle vittime ripercorre la sua vicenda raccontando una storia che, mille racconti e anni dopo, li trova sempre con la stessa indignazione incredula e un dolore che sembra non poter mai essere scalfito. «In quelle aule siamo noi gli imputati. E siamo soli», dice Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, vittima a sua volta dei «meccanismi di screditamento di testimoni, vittime e familiari», che caratterizzano tutti i casi di “malapolizia”: «Non sono processi come tutti gli altri», avverte Fabio Ambrosetti, legale nei casi Uva e Ferrulli. Prendono parola anche Domenica Ferrulli, la figlia di Michele, Claudia Budroni, la sorella di Dino, Rudra Bianzino, figlio di Aldo, Grazia Serra, la nipote di Francesco Mastrogiovanni e Andrea Magherini, il fratello di Riccardo. Tutti loro hanno una lunga scia di processi e poderose domande da rivolgere alla giustizia e alla politica perché nessuno debba passare quello che stanno passando loro. Girano l’Italia (e ora l’Europa) per far conoscere la propria storia, sono dovuti diventare competenti di diritto, medicina legale, procedure di arresto. Vorrebbero vivere in un paese che non uccida i loro cari anche nelle aule di tribunale, come dice Ilaria Cucchi. Vengono insultati pubblicamente da politici populisti e razzisti di primo piano, da leader sindacali della polizia, perfino dagli imputati dei rispettivi processi ma intorno a loro trovano anche un tessuto solidale come quello rappresentato da Acad. «Il loro dolore e la loro dignità sono riusciti ad aprire uno spazio pubblico di azione, riflessione e resistenza civile – dice Luca Blasi, uno degli attivisti di Acad salito a Bruxelles con un dossier sull’anomalia Italia dedicato a Giulio Regeni, gli ingredienti che hanno ucciso il giovane ricercatore italiano in Egitto sono i medesimi che uccidono sulle nostre strade e nelle nostre prigioni.
Gli abusi di polizia, il ricorso alla tortura e la repressione sono «l’altra faccia dell’Europa dell’austerità, dell’Europa Fortezza, della guerra», fa presente, a meno di quattro chilometri dal teatro degli scontri, Eleonora Forenza, deputata del Gue e promotrice di questa audizione. Il suo impegno ha radici nelle strade di Genova del 2001. Da allora ha dovuto «assaggiare più di una volta i manganelli delle polizie italiane». E ora, da deputata europea, ha iniziato a lavorare su un “libro bianco” sulla repressione in Europa, una mappa: «Il nostro obbiettivo è sollecitare la Commissione libertà civili del Parlamento europeo a produrre uno studio sull’Italia e avviare un’audizione in modo che la Commissione vada avanti con una procedura d’infrazione nei confronti del nostro Paese inadempiente sulla sanzione della tortura».
Intanto, la missione belga si conclude fuori dal palazzo del parlamento europeo con un incontro degli attivisti italiani e un collettivo di Bruxelles che si riunisce nella stessa sede in cui si trovavano gli esuli in fuga dal franchismo. Oggi è la Giornata internazionale «against the police brutality». Qui la celebrano, come pure in Svizzera, Canada e Usa. In Italia chissà, una delle ambizioni di Acad è quella di costruire una manifestazione nazionale contro gli abusi, per una vera legge contro la tortura, per un numeretto sulle divise di chi opera in ordine pubblico.