ACAD

-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Caso Cucchi, un perito (forse) massone e un maresciallo “felice”

Cucchi, slitta al 24 marzo l’incidente probatorio. La famiglia non si fida del perito: sarebbe o sarebbe stato massone. Il punto sull’inchiesta bis sulla morte di Stefano
di Checchino Antonini da popoffquotidiano.it

Sono state rinviate al 24 marzo prossimo a Bari, le operazioni peritali disposte dal gip di Roma Elvira Tamburelli per accertare la natura e le cause delle lesioni subite da Stefano Cucchi nell’ottobre del 2009 quando fu arrestato per droga. La perizia doveva iniziare ieri nell’ambito della seconda inchiesta bis sulla morte di Cucchi che coinvolge 5 carabinieri. A determinare il rinvio è stato un esposto della famiglia Cucchi nei riguardi del professor Francesco Introna che è a capo del collegio peritale nominato dal gip. Esposto che secondo quanto si è appreso è conseguente alla decisione del professor Vittorio Fineschi, capo dei consulenti della famiglia Cucchi di abbandonare l’incarico peritale per motivi di contrasto e inimicizia con il professor Introna. Introna risulterebbe iscritto alla massoneria – lui dice che lo è stato ma ora non più – oltre ad essere un esponente di Fratelli d’Italia, il partito di Ignazio La Russa, indimenticato ministro del governo Berlusconi che, alla morte di Cucchi, emise un proclama per tenere i carabinieri fuori dalle indagini. Il 24 marzo prossimo dovrebbero essere superati gli ostacoli e avviare le operazioni. Per quanto riguarda l’inchiesta bis, in particolare la posizione dei 5 carabinieri, 3 di questi sono indagati per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità mentre gli altri 2 sono accusati di falsa testimonianza.
Gli inquirenti definiscono «elementi di dirompente novità» le scoperte che hanno portato cinque carabinieri a essere indagati per il pestaggio di Stefano Cucchi e per i successivi depistaggi: una «strategia scientificamente orchestrata per allontanare i sospetti dai carabinieri che lo arrestarono». L’incidente probatorio servirà a stabilire la natura e l’effettiva portata delle lesioni patite da Cucchi. Tre carabinieri lo avrebbero preso a calci e pugni facendolo cadere violentemente a terra fino a spaccargli la schiena all’altezza della quarta vertebra sacrale e della terza vertebra lombare. Furono le conseguenze di quelle botte a ucciderlo? A Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, il quadro probatorio scaturito dall’indagine bis appare «imponente» ma i nomi indicati per la nuova perizia fanno tornare gli spettri della prima inchiesta, così “strabica” da lasciare i carabinieri sempre in un cono d’ombra e capace solo di fornire una perizia così inattendibile da non poter spiegare la morte del trentunenne romano, nel letto di un reparto di medicina penitenziaria, arrestato sei giorni prima. E’ stato il presidente della Società italiana di radiologia medica, a scoprire, poche settimane fa, che le perizie in possesso del tribunale erano inattendibili, basandosi su una risonanza magnetica inutile su un paziente deceduto e sull’esame della porzione sbagliata della colonna vertebrale di Stefano. Da lì scaturì la teoria dell’inanizione, della morte per fame e per sete, che depistò sia la corte sia la commissione d’inchiesta del senato che scambiò un caso di “malapolizia” per un più banale caso di malasanità.
In realtà la miscela velenosa che ha condotto alla morte un detenuto per droga è composta da molti ingredienti tossici. Eccone alcuni: il proibizionismo della Fini-Giovanardi, legge incostituzionale che ha sovraffollato le carceri italiane; la superficialità della burocrazia (quella carceraria perché non è stata nemmeno in grado di pesare e misurare l’altezza di Cucchi, 31 anni per 42 chili, facendolo risultare otto chili più pesante e sei centimetri più alto; quella giudiziaria che nemmeno s’è accorta che, all’udienza preliminare Cucchi risultava albanese, di cinque anni più anziano e senza fissa dimora).
Poi c’è quel settore della politica che fabbrica la paura (del diverso, del terrorista, dello zingaro, del migrante ecc…) e coccola a ogni costo il notevole bacino di voti degli elettori in divisa negando una legge decente contro la tortura o l’istituzione di un codice alfanumerico sulle divise di chi opera travisato in ordine pubblico.
Nelle ore successive alla morte di Cucchi, ad esempio, l’allora ministro della Difesa mise la mano sul fuoco: «Non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione». Il ministro in questione era Ignazio La Russa, Fratelli d’Italia, lo stesso partito di Franco Introna, professore dell’istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari, appena nominato nel collegio che dovrà produrre la nuova perizia. Da qui il rifiuto del perito di fiducia dei Cucchi, il professor Fineschi, le perplessità di Anselmo per i legami di Introna con il team di Caterina Cattaneo, del Labanof di Milano, l’istituto che ha redatto la precedente perizia, e lo sfogo di Ilaria Cucchi: «C’è una legge che impone che tutti i periti e consulenti di parte pubblica nel processo Cucchi debbano per forza aver legami col signor La Russa?».
Un altro ingrediente della miscela è l’emergenza sicurezza, montata dai noti fabbricanti della paura, dentro cui maturano sia un’opinione pubblica spaventata sia una sub-cultura di forze dell’ordine reclutate ormai da quindici anni tra i reduci della guerra globale. E’ un veterano di parecchie missioni di “pace”, Roberto Mandolini, il comandante di stazione dei cinque, un maresciallo, a sua volta indagato per aver preso parte alla minuziosa strategia che, per sei anni, ha impedito di capire cosa fosse successo prima dell’udienza preliminare. E, stando alle carte, avrebbe scritto di suo pugno, in calce ad uno degli ordini di servizio contraffatto quella notte, un commento che ora suona agghiacciante e beffardo: “Bravi!” (pagina 47 della richiesta di incidente probatorio). “I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma (…). Tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in Parlamento”, taglia corto il maresciallo commentando in rete un articolo che ricostruisce i fatti.
«Le uniche chance delle difese sembrano ormai consistere nell’infangare la memoria di Stefano e della sua famiglia, dice ancora a Popoff, Fabio Anselmo, legale dei Cucchi e parte civile in altri casi di “malapolizia”: Aldrovandi, Magherini, Bifloco, Budroni, Ferrulli, Uva ecc… Anselmo teme che, come avviene in tutte le storie come questa, si ribaltino i ruoli. Perché processare qualcuno con la divisa è difficile come processare uno stupratore – lo hanno detto i due pm del processo Diaz in premessa alla loro lunghissima requisitoria – perché scatta sempre il riflesso condizionato di mettere sotto accusa la vittima. La vittima o i suoi familiari.
Roberto Mandolini “è felice”, faceva sapere facebook i primi giorni di gennaio proprio mentre tutti i giornali riferivano la denuncia contro Ilaria Cucchi da parte di un altro dei carabinieri sotto le lenti della procura. Dal suo profilo è evidentissimo l’attacco che teme Anselmo: «Ad oggi ho ricevuto quasi 3000 messaggi in privato di padri e madri di famiglia, di cittadini onesti, di persone che non delinquono nella vita per vivere, genitori attenti all’educazione dei figli (il neretto è mio, ndr)… ». Ecco cosa ha scritto sul caso Bifolco: “Con tutto il rispetto per il dolore di una madre per la perdita del figlio…..ma io a 17 anni, alle 03:00 di notte, non andavo in giro per la città in tre su un motorino rubato, senza assicurazione, senza patentino e in compagnia di un latitante e un pregiudicato. Io stavo a casa a dormire…..!!!! Mia madre diceva: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei…..”. Così anche il primo ottobre del 2014, commentando l’assoluzione dei poliziotti che causarono la morte di Domenico Ferrulli: «Finalmente una Corte che smentisce l’operato di alcuni PM……. Chi è causa dei suoi mali…..pianga se stesso……!!! Alle 20:00 si cena a casa e in famiglia e non si sta a schiamazzare ubriachi sotto le case della gente……». Le vittime, insomma, se la sono cercata.
Come moltissimi tutori dell’ordine anche il maresciallo sembra convinto di servire con onore uno stato, troppo permissivo, che non difende adeguatamente i propri servitori. Per esempio il post del 20 settembre 2014: “Le forze dell’ordine arrestano……e i giudici liberano…..!!!! È sempre stato così in Italia e sempre così sarà”.
Anche le intercettazioni dei suoi uomini forniscono uno spaccato inquietante della visione del mondo che li ispira: «Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (…). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie», dice uno dei tre indagati per il pestaggio, lo stesso che l’ex moglie rimprovera di essersi divertito a pestare Cucchi. Dirà la donna agli inquirenti che quel pestaggio non fu un caso isolato: «Quando raccontava queste cose Raffaele rideva e, davanti ai miei rimproveri, rispondeva “Chill è sulu nu drogatu e’ merda”».
Il comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato recentemente: «Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri». E questo è l’ultimo ingrediente della miscela: la teoria delle “mele marce” dietro cui si barricano i Comandi nei casi di abusi così evidenti da sfuggire agli insabbiamenti (i casi Bifolco, Cucchi, Uva e Magherini, solo per citare). Scrive alla ministra Pinotti un senatore del Pd, Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani: «Se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti».

Firenze: processo Magherini, aggiornamenti del 9 febbraio

Terzo aggiornamento
L’udienza è proseguita fino alle 15e45 con le deposizioni dell’appuntato Corni e della volontaria della Croce Rossa Janeta Mitrea, in forte contrasto le due versioni.
Dalla deposizione dell’appuntato Corni emergono delle dichiarazioni che lasciano sdegno e rabbia, vista la realtà dei fatti.
Per citare le parole di Andrea Magherini: “Corni, 80 kg di bugie”.
Ecco un estratto delle sue dichiarazioni:
Corni dichiara: “Quando è arrivata l’ambulanza abbiamo spiegato la situazione ed abbiamo anche precisato che eravamo pronti a togliere le manette se necessario per medicare, ma dopo il sedativo” (di fatto le manette non sono mai state tolte).
“Ho pensato fosse una quiete apparente. Non ci siamo accorti che stava male, io non sono in grado di valutarlo. Ho pensato, visto lo sforzo che aveva fatto, che poi si fosse placato, di solito accade così”
“Castellano gli teneva la testa per impedire che Magherini si facesse del male perché sbatteva la testa in terra” “Una persona in terra è pericolosa per noi ed anche per lui… dobbiamo fare in modo che il soggetto non si faccia male” (dato il risultato non ci sono parole per commentare).
“Non ho sentito nessuno dire -no i calci no-”.
“Non ho dato calci, ho solo messo la pianta del piede, tenendo il tallone a terra, sulla spalla per girargli il braccio, forse chi era dietro può aver avuto la percezione che dessi calci, ma muovevo solo i piedi per non perdere l’equilibrio” (?????)
(Nega di aver dato calci, nega di aver fatto pressioni sul torace, nega il ginocchio sul collo, nega che i civili presenti si fossero interessati sulle condizioni di salute di Riky, nega di aver sentito “dagliene ancora”.
Riccardo per i 4 CC sembra non essere morto.)
Gli viene chiesto: “Quando si è tranquillizzato qualcuno si è rivolto a Riccardo?” risponde “ No… Perché certi soggetti anche quando si sono calmati possono ancora fare del male, gli stavamo tutti a distanza di sicurezza, circa un metro. Quando si è tranquillizzato ho sollecitato l’arrivo del medico perché era ancora pericoloso, calci, morsi ed autolesionismo” “Mentre si dimenava ho visto chiaramente che sbatteva la testa su un fianco”
(E se è morto, per i CC, è morto da solo.)
Quella raccontata dai testimoni civili e dai medici e volontari della croce Rossa sembra invece un’altra storia, come in parte emerge dalla seguente deposizione di Mitrea, volontaria della Croce rossa:
Già in fase iniziale emerge un grave errore di valutazione in quanto “Il codice era un “giallo” quindi su strada di media gravità non c’erano altri codici che segnalassero il bisogno di un medico”
La collega Claudia Madda si avvicina ed inizia a chiamarlo, ma Riccardo non rispondeva. ..
La collega “due volte chiese ai carabinieri se era possibile togliere le manette” a Riccardo Magherini, per valutare le sue condizioni, ma “le risposero che era pericoloso, perché solo in quattro erano riusciti a tranquillizzarlo”.”Non mi impedirono di avvicinarmi – ha aggiunto – ma se mi dicono che è pericoloso è chiaro che non devo avvicinarmi”. La collega, che aveva più esperienza -Claudia Madda-, lo fece: “Ma per mettere il saturimetro – ha detto la volontaria – si è dovuta far spazio fra due carabinieri ” e che poi il saturimetro “non funzionava” mentre “Quando il saturimetro è stato messo ad ascenzi funzionava”. La volontaria ha poi detto di aver visto “un carabiniere a cavalcioni su Magherini” e che la collega Claudia, ascoltata a sommarie informazioni in una stanza dell’ospedale, accanto al cadavere di Magherini, ha raccontato che non stava bene, “era in una stanza piccola con due cc che sembravano aggredirla, no non è giusto aggredire –si corregge- però insistevano tanto, e lei faceva no con la testa, ma non so cosa dicevano. Quando è uscita ha detto che aveva dovuto dire cosa volevano loro. Omettendo il ginocchio sulla schiena e facendogli dire che magherini respirava.”
Sui reperti aggiunge che “la casella -non cosciente- è stata barrata dopo che era arrivato il medico e magherini era già in arresto. È stata barrata anche la casella –respira- perché Claudia aveva avuto quella sensazione. Però eravamo tutti molto stanchi, disperati,è non sapevamo cosa mettere.”
In ultimo L’avvocato Maresca chiede la decadenza della contestazione di percosse su Corni.
L’Avv. Anselmo si oppone e ricorda che lui stesso voleva contestare le lesioni.
Il giudice rinvia all’udienza del primo marzo per la deposizione di Claudia Madda e dei consulenti tecnici medico legali.
Anche oggi, come in tutte le altre udienze, tante le persone in aula a fianco della famiglia Magherini per dare sostegno alla lotta di verità e giustizia per Riky.
Solidali con la Famiglia Magherini e vicini al loro dolore per tutto quello che stanno continuando a subire.

Secondo aggiornamento
E’ da poco terminata la deposizione dell’appuntato Ascenzi, uno dei 4 CC imputati per la morte di Riky.
Dalla deposizione emerge chiaramente la volontà di far sparire fin da subito le prove delle percosse subite da Riccardo durante il fermo:
– Ascenzi afferma di non ricordare dei calci;
-il testimone Torretti (il ragazzo che nel video ormai noto grida “no i calci no” viene guarda caso omesso, come dimostra l’annotazione di servizio redatta e firmata dai 4, dalla lista dei testimoni identificati quella notte;
-Ascenzi non ricorda/non ha sentito neanche le parole del maresciallo Castellano rivolte allo stesso Torretti: “non rompere i coglioni”;
-dichiara inoltre che il forte dolore alla testa causato dal continuo comportamento violento del Magherini (che aveva prodotto sulla sua testa UN GRAFFIO!!!) ha forse generato in lui un po’ di confusione che ha presumibilmente prodotto la dimenticanza di cui sopra, o forse questa omissione del testimone Torretti è avvenuta perchè non lo riteneva importante. Nonostante questo dichiara di aver svolto regolarmente il suo lavoro inserendo gli altri testimoni e sottolineando l’importanza della Cassai in quanto “lei doveva sporgere denuncia per richiedere i danni alla sua macchina”, il Doblò bianco danneggiato dal Magherini quella notte, quando la stessa Cassai, nella sua testimonianza in un’ udienza precedente ha dichiarato fin da subito che NON voleva esporre denuncia per richiesta danni.
-Dopo aver ricevuto domanda dall’avvocato Maresca (difensore dei 4 CC) se si fosse per caso accorto delle lesioni che Riccardo aveva sul volto, e dopo che più volte lo stesso Ascenzi ha affermato di non aver visuale per visualizzare il volto di Riky, ha affermato che Riccardo nel suo continuo dimenarsi e strusciarsi a terra sicuramente si è creato le lesioni DA SOLO.
-L’avvocato Maresca inoltre, per sottolineare il perfetto operato dei suoi assistiti, fa notare che nelle volanti i CC avevano lasciato inutilizzati i “manganelli Tonfa” in loro dotazione, come se fosse un elemento in più per negare che ci sia stata violenza da parte dei carabinieri in quel fermo.
Forse qualcuno si è dimenticato di dire a Maresca che Riky è morto?
Ora in corso la deposizione dell’appuntato Corni.

Primo aggiornamento
È da poco iniziata una nuova udienza del processo per la morte di Riccardo Magherini.
Si stanno svolgendo le testimonianze dei consulenti di parte civile sugli elementi audio e video disponibili su quella notte. “Salvatemi, salvatemi, salvatemi” “chiamate un ambulaza” gridava Riky accerchiato dai 4 carabinieri.
Tra poco inizierà l’esame degli imputati.
Verità per Riky.

Caso Uva, il colpo di spugna della pubblica accusa

La pm di Varese chiede l’assoluzione con formula piena degli otto, tra agenti di polizia e carabinieri, imputati per l’omicidio preterintenzionale di Giuseppe Uva
di Ercole Olmi popoffquotidiano.it

In due ore scarse la pm di Varese ha sostanzialmente liquidato il caso Uva, morto il 14 giugno del 2008. La requisitoria, infatti, s’è conclusa chiedendo l’assoluzione con formula piena dei carabinieri e degli agenti di polizia, in tutto otto imputati di omicidio preterintenzionale, perché non ci sarebbe prova delle percosse quindi nemmeno si porrebbe il nesso causale tra queste e il decesso dell’uomo avvenuto alcune ore dopo, il fermo in ospedale. Il pm ha voluto stroncare – almeno ci ha provato visto che le controdeduzioni della parte civile proveranno a smontarne il ragionamento il prossimo 29 gennaio – le perizie sulla causa di morte che i periti hanno individuato nella tempesta emotiva scatenata da percosse contenzione e stato alcolemico di Giuseppe Uva, la cosiddetta teoria del trigger. Tutto dentro un ragionamento che ha scelto, tra quelli forniti dalle testimonianze, solo gli argomenti non contraddicono la tesi assolutoria, il colpo di spugna su una oscura vicenda di malapolizia. Tra i passaggi più clamorisi quello in cui la pm ha sostenuto che Uva è stato arrestato ma solo momentaneamente privato della libertà per tutelare la sua salute e non continuasse a delinquere. Altrimenti c’era il rischio che si facesse male? Più male di come s’è sentito nelle mani di otto tutori dell’ordine, stando alla testimonianza dell’amico fermato con lui quella notte.
E nemmeno ci sarebbe la prova che i pantaloni sporchi di sangue, consegnati da Lucia Uva, la sorella dell’uomo morto, fossero gli stessi indossati quella sera. Lucia, inoltre, avrebbe toccato impropriamente il cadavere. Il processo rischia di rovesciarsi sulle vittime. L’unica consolazione, come segnala Fabio Ambrosetti, legale della famiglia Uva, l’ammissione che il pm in carica fino allo scorso anno, Agostino Abate, non ha fatto a suo tempo le indagini dovute.
Erano le 2,55 del 14 Giugno 2008, si può leggere sul sito di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che anche stamattina era presente in aula con alcuni attivisti: in una stanza del comando provinciale dei carabinieri di via Aurelio Saffi si trovava Giuseppe Uva denunciato a piede libero insieme al suo amico Alberto Biggiogero per “disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone.” Giuseppe quella sera era in giro per la città con il suo amico Alberto Biggiogero. Un po’ alticci i due arrivano all’altezza di via Dandolo e per goliardia spostano alcune transenne con l’intenzione di chiudere la strada al traffico. Ridono, urlano, fanno confusione, troppo per gli abitanti del quartiere che chiamano i carabinieri. Sul luogo arriva una gazzella con a bordo il brigadiere Paolo Righetto e l’appuntato capo Stefano Dal Bosco. La fase del fermo e dell’arresto – raccontata da Biggiogero – discorda con quella messa a verbale: all’arrivo della gazzella il brigadiere Righetto scende dalla macchina urlando: ”Uva proprio te cercavo stanotte, questa non te la faccio passare liscia, questa te la faccio pagare!”. Inizia quello strano inseguimento a piedi tra Uva e il brigadiere che quando lo raggiunge lo scaraventa a terra e comincia a malmenarlo. Alberto interviene ma viene spinto via e finisce addosso all’altro agente che lo schiaffeggia accusandolo di averlo urtato volontariamente. Nel frattempo Uva viene trascinato verso la gazzella e scaraventato sui sedili posteriori. Il brigadiere continuava a inveire contro di lui prendendolo a calci e pugni. Giuseppe chiede aiuto ma Alberto non può intervenire in quanto immobilizzato dal secondo agente. In quel frangente arrivano due volanti della polizia e viene intimato a Biggiogero di salire in macchina. Lui chiede di andare con il suo amico ma la polizia, per tutta risposta gli mostra il manganello e gli chiede se abbia voglia di provarlo. A quel punto la gazzella con Giuseppe parte e Alberto non vedrà più il suo amico vivo, il peggio deve ancora arrivare. In caserma Alberto sente distintamente le urla dell’amico, ogni volta che chiede di smetterla con il pestaggio viene minacciato dagli agenti fino a che non decide di chiamare il 118 dal suo cellulare per richiedere un ambulanza. L’operatore del 118 dice ad Alberto che avrebbe mandato l’ambulanza ma al termine della telefonata anziché inviare il mezzo il 118 chiama la caserma per avere conferma. Gli viene risposto che non c’è bisogno di alcuna ambulanza e che la chiamata è stata effettuata da due ubriachi a cui adesso avrebbero tolto il cellulare. Alle 6 sono gli stessi carabinieri a chiamare il 118 per far portar via Giuseppe Uva. Alle 11.10, otto ore dopo l’arresto e quattro dopo il ricovero Uva è un uomo morto.

Processo Cucchi: aggiornamento del 15 dicembre

AGGIORNAMENTI PROCESSO CUCCHI: Per la morte di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 e deceduto dopo una settimana all’ospedale Pertini di Roma, la Cassazione ha annullato l’assoluzione di 5 medici, disponendo un appello-bis per omicidio colposo. Definitivamente assolti tre agenti della polizia penitenziaria, tre infermieri del ‘Pertini’ e un sesto medico.
Ora la Corte d’assise d’appello di Roma dovrà riesaminare, solo per l’accusa di omicidio colposo, la responsabilità del primario del reparto protetto del Pertini Aldo Fierro e quella dei medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo. E’ definitiva, invece, l’assoluzione della dottoressa Rosita Caponetti. La Suprema corte inoltre ha confermato le assoluzioni di 3 infermieri e di 3 agenti della penitenziaria e preso atto del ritiro di un ricorso della parte civile.

Aldrovandi, archiviata la denuncia del Coisp a Patrizia Moretti

Il Gip di Ferrara archivia la querela del capo dei Coisp contro la mamma di Federico Aldrovandi. Il 25 e 26 settembre iniziative a Ferrara nel decennale dell’omicidio
di Ercole Olmi popoffquotidiano.it

Archiviata la denuncia del Coisp, sindacatino di polizia (nel senso di minoritario), precisamente del suo capo Maccari, contro Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, ucciso a diciotto anni da quattro poliziotti. Maccari si inalberò parecchio, a luglio del 2014, quando la Moretti lo definì uno stalker spiegando che percepiva “come una tortura puntuale, cioè continua” le continue attenzioni che il sindacalista le rivolgeva. Perle di umanità, da parte di Maccari, come quando l’accusava di “trincerarsi dietro il dolore del lutto per infierire sugli altri senza argomentazioni valide”, oppure di “spargere veleno a profusione sul Coisp” solo perché il sindacatino in questione aveva organizzato una manifestazione di solidarietà con i quattro autori dell’omicidio Aldrovandi proprio sotto le finestre del Comune di Ferrara, ossia il luogo di lavoro di Patrizia Moretti. Per il Coisp ogni critica è “sparare a zero senza controllo basandosi su argomentazioni fasulle”. Bene, secondo la giudice Silvia Marini, gip a Ferrara: “le modalità espressive erano proporzionate e funzionali all’opinione, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritenevano compromessi”; le “espressioni potenzialmente diffamatorie erano strettamente riferibili al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, potendo inquadrarsi come reazione difensiva del soggetto ingiustamente attaccato” e “non si sono tradotte in mera aggressione verbale del soggetto criticato”. Niente reato, signor Maccari. Fra una settimana, il 25 settembre, migliaia di persone parteciperanno a Ferrara alle commemorazioni per il decimo anniversario dell’omicidio. Migliaia di persone saranno ancora vicine a Patrizia, Lino e Stefano, genitori e fratello del ragazzo ucciso senza motivo da quattro agenti condannati in via definitiva e difesi a oltranza da piccole e grandi sigle del sindacalismo di polizia.