Ci arriva adesso, come l’ennesima doccia fredda, la notizia che il gup ha assolto l’agente di polizia Luca Pedemonte che il 10 giugno dello scorso anno sparò sei colpi contro il ventenne Jefferson Tomalà, nell’abitazione di quest’ultimo in via Borzoli a Genova, tragico epilogo di quello che doveva essere un trattamento sanitario obbligatorio per un ragazzo che in quel momento aveva probabilmente solo bisogno dell’aiuto di un medico. Pedemonte era accusato di omicidio colposo per eccesso di legittima difesa.
Nella precedente udienza il giudice dichiarò che “Una pur minimà professionalità, avrebbe dovuto imporre l’esplosione di un solo colpo e non in direzione di parti vitali. Tutti i colpi furono invece diretti in zone vitali e furono esplosi a distanza talmente ravvicinata da consentire, con l’impiego di dovuta diligenza e perizia, una mira pressoché esatta”.
Oggi il processo si è svolto a porte chiuse, con rito abbreviato.
A noi, come sempre rimane l’amarezza nell’osservare il dolore di una famiglia, di una madre, che chiede aiuto temendo per l’incolumità del figlio, e lo ritrova morto.
a 22 anni.
UDIENZA JEFFERSON TOMALÀ
Il sostituto procuratore ha chiesto l’assoluzione per Luca Pedemonte, l’agente accusato di eccesso colposo di legittima difesa per aver sparato uccidendo il ventenne Jefferson Tomalà, con la motivazione che “Il suo assistito non poteva comportarsi diversamente: i sei colpi sono stati necessari a placare l’azione offensiva, che la vittima continuava a portare avanti”
Prossima udienza fissata per il 26 settembre, che vedrà le discussioni della difesa e delle parti civili e, probabilmente, l’emanazione della sentenza.
Gli altri Stefano Cucchi – I casi di abusi in divisa ancora aperti in Italia
Nell’anniversario della morte di Stefano Cucchi, ricordiamo i casi di cittadini morti durante un’azione delle forze dell’ordine o sotto la loro custodia.
In questi giorni l’attenzione è di nuovo puntata sugli abusi delle forze dell’ordine grazie a un caso emblematico, il caso Cucchi, al film che ne è stato tratto e alla svolta processuale data dalla confessione del carabiniere Tedesco, che ha indicato i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro come gli autori del pestaggio. Una svolta che Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi—ma anche delle famiglie Aldrovandi, Uva, Magherini—ha definito “eclatante”, perché offre una “testimonianza diretta di chi ha assistito ai fatti,” ma non solo: “riferisce anche dei condizionamenti e delle intimidazioni subite, e di tutto quello che è successo dopo.”
Gli abusi in divisa, in realtà, sono un argomento che torna ciclicamente nella sfera mediatica, spinto da un nuovo caso o dalla pubblicazione di un rapporto sul numero di suicidi e morti sospette nelle carceri. Ciò che manca sempre è la volontà, soprattutto istituzionale, di costruire una riflessione più ampia, che non solo unisca tra loro i vari casi, ma li riconosca come il frutto di politiche sbagliate e di una mentalità comune costruita ad hoc, basata in primo luogo sulla criminalizzazione.
“La criminalizzazione della vittima è una costante nei casi di malapolizia,” spiega Checchino Antonini, giornalista e attivista di ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa). “Di questi casi si tende a parlare in termini emotivi, della pena che si prova per l’una o per l’altra parte. Si parla di onore o disonore dell’Arma, e non si indaga, per esempio, il legame con il proibizionismo o con il razzismo. Non si mette in discussione il tipo di addestramento ricevuto e non si parla del fatto che da tempo è in atto una forte criminalizzazione dei conflitti sociali. L’ossessione per il decoro e un’emergenza sicurezza che è tutto meno che un’emergenza (visto che i reati sono in continuo calo) portano a una vera e propria repressione di alcuni stili di vita.” Il migrante, il tossico, l’attivista dei centri sociali, il senzatetto, lo spacciatore diventano tutte categorie percepite come zavorre sociali (della serie “mi dispiace che sia morto MA”). Leggi tutto